REGOLAMENTO
Inviate i vostri brevi scritti alla mia e-mail: pennadoro62@gmail.com provvederò a pubblicarli sul blog.
IMPORTANTE: i racconti devono essere brevi, originali e devono trattare dei temi adatti a tutti con un linguaggio adeguato.
Insieme al racconto potrete mandarmi un vostro commento personale, una curiosità su come è nata la storiella o un’immagine che volete accompagni il vostro scritto.
IMPORTANTE: i racconti devono essere brevi, originali e devono trattare dei temi adatti a tutti con un linguaggio adeguato.
Insieme al racconto potrete mandarmi un vostro commento personale, una curiosità su come è nata la storiella o un’immagine che volete accompagni il vostro scritto.
In questo secondo appuntamento ho il piacere di ospitare:
Athenae Noctua
Athenae Noctua
Sicuramente la conoscerete già dato che anche lei è una blogger, ecco il link al suo blog: http://athenaenoctua2013.blogspot.it/
La ringrazio per avermi mandato questo racconto e aver deciso di condividerlo con noi.
Adesso tocca a voi leggerlo :)
Lasciate ogni speranza, voi ch'uscite
Non
ci pensa nessuno? Ho ormai centinaia, migliaia di anni! E devo sempre star qui
a portare su e giù questo pesante legno marcio. Ho crampi per tutte le braccia,
sento i nervi tesi sotto la pelle. Vorrei vedere un qualsiasi altro vecchio al
mio posto a mulinare per tutto il giorno e ogni giorno il remo per spostare la
barca o per bastonare i morti che si sporgono, impazziti, nel tentativo di
tornare sulla riva. Quella felice, intendo. Nessuno che smani di passare dall’altra
parte. Nossignore! Tutti infervorati per rivivere. Chissà chi ha messo loro in
testa che è possibile. A me non risulta.
Mi
si può biasimare per aver cercato di sottrarmi a questa giostra di matti? Io
non capisco perché i morti non possano nuotare... o perché, semplicemente,
nessuno venga mai a darmi il cambio. Un’ora di libertà al giorno sarebbe
chiedere troppo? Ebbene, se proprio non posso avere la pensione, mi sono detto,
mi prendo una vacanza. La mia intenzione, ad essere onesti, era quella di andarmene
e non tornare. Un po’come fare il contrario di ciò che fanno i miei clienti:
loro, da vivi che erano, restano per sempre morti, mentre, io, da morto – se
questo sono – avrei voluto starmene tra i vivi.
Ho
semplicemente mollato lì barca e remi. Quella mattina ero sul punto di cambiare
idea: era un giorno tranquillo, pochi morti in arrivo. Ma, alla fine, i latrati
di Cerbero e le imprecazioni di Minosse mi hanno fatto saltare i cinque minuti.
Un
balzo sulla riva e ho oltrepassato gli sguardi attoniti dei morti: non so se si
stupissero per la nuova realtà o per il fatto che si vedevano senza un
traghettatore. Uno di loro mi ha fermato e mi ha chiesto dove stessi andando.
«A vedere com’è la vita».
«Non ti perdi niente», ha risposto, «Guarda
me: mi sono ammazzato».
I
suicidi sono tra i più disprezzati anche laggiù dalle mie parti. Stanno
piuttosto in basso, per la verità. Ma, per quanto mi riguarda, li ho sempre
considerati meglio di tanti altri per il fatto che non perdono tempo a
lamentarsi della morte. Non mi importa la gravità delle loro colpe, che per
Minosse invece è sempre motivo di preoccupazione, ma il grande sollievo che
provo nel trasportare quelle anime che si trovano lì per loro scelta. Sulla
barca tutti si lagnano insopportabilmente, ma i suicidi stanno sempre in
silenzio e non decantano la perduta vita. I migliori clienti, senza dubbio.
«Ti traghetterei gratis se non fossi deciso ad
andare via», ho detto.
L’anima
ha sorriso. «Posso aspettare. Secondo me ritorni in fretta. Soprattutto se intendi
piombare tra i vivi con quel solo straccio addosso».
Subito
ho abbassato sguardo sui cenci che avevo avvolti intorno ai fianchi. Ricordo di
aver alzato le spalle. Non sapevo come si vestisse nell’altro mondo. Ho
guardato l’anima. Indossava un paio di pantaloni neri che definiva jeans o
qualcosa di simile e una tunica leggera che i vivi chiamano camicia. Ai piedi
portava degli strani calzari morbidi. Ha cominciato a spogliarsi e in pochi
secondi era lì con tutti gli abiti in braccio. Me li ha porti e io li ho presi
con esitazione.
«Tanto dicono che mi ridurrò ad un mucchio di
sterpaglie», ha commentato, «Non mi serviranno».
L’ho
ringraziato e ho indossato gli abiti, ingaggiando una lunga lotta con quella
che l’anima aveva definito “cerniera lampo”. Infine mi sono avviato alla porta
e, senza voltarmi indietro, l’ho attraversata.
Come
dicevo, era l’alba. Mi sono trovato catapultato in una realtà frenetica, col
rischio di essere messo sotto da un’automobile – ne conoscevo il nome perché
avevo traghettato molti morti investiti – al mio primo passo da vivo.
Ho
preso a camminare in mezzo alle strade, adeguandomi a percorrere gli spazi che
vedevo occupati da altri che, come me, si spostavano a piedi. Tutti seguivano i
comandi di una strana torcia a tre colori. Non ci è voluto molto per capire che
al rosso tutti dovevano fermarsi e al verde potevano andare. In questo modo si
voleva ridurre la mia potenziale clientela. Su sentieri rialzati ai bordi degli
spazi delle automobili si dovevano muovere i pedoni e presto ho imparato a
distinguere i luoghi che mi erano accessibili da quelli che dovevo evitare.
Avevo
sentito dire dai traghettati che un uomo doveva lavorare per vivere. Lavorare e
spendere i soldi guadagnati, che non erano le monete di cui disponevo io. Ho deciso
che mi serviva un lavoro, ma che non avevo alcuna referenza se non la mia
rodata carriera di traghettatore. Ho chiesto informazioni su dove poter trovare
un impiego.
Venezia.
Mi hanno dato in molti il nome di questa città. L’ho trovata subito molto più
adatta a me rispetto alle turbolente piste di autocarri e macchine. Ero in
mezzo all’acqua, e, se non altro, il passaggio al nuovo mondo risultava meno
traumatico del previsto.
Ho
notato immediatamente che la mia capigliatura folta, canuta e ricciuta attirava
l’attenzione di ogni singolo passante. Che mi invidiassero o che mi
compatissero? Ho sentito un ragazzo con una cresta ossigenata che ammirava le
mie lenti rosse. Ma quali lenti?
Nonostante
gli sguardi stupiti della gente, sono riuscito a farmi portare dai miei nuovi
mocassini fino ad un molo deserto. Al legno scricchiolante erano legate alcune
barche longilinee e ornate in modo molto particolare alle estremità; su ognuna
vi era un comodo posto per i passeggeri, mentre i rematori prendevano posizione
alle loro spalle, a ridosso della lingua di legno che si alzava a poppa.
Mi
hanno dato immediatamente il lavoro. Unica condizione: dimostrare di poter
governare l’imbarcazione. Come se qualcuno fosse in grado di dare a me lezioni
di navigazione!
Il
giorno seguente, vestito con una maglietta a righine blu e bianche e pantaloni
alla zuava e con un cappellino di paglia a cingermi la chioma di cui andavo
molto fiero e che, a detta dei colleghi, avrebbe attirato i clienti, ho
iniziato a navigare su e giù per la città, affiancato da un altro gondoliere
che aveva il compito di illustrarmi i percorsi lungo i canali.
Nel
giro di qualche giorno l’andamento di ogni canale si era impresso nella mia
memoria e viaggiavo da solo, indipendentemente. Centinaia di turisti erano ogni
giorno assiepati sul molo a domandare un passaggio e disposti a sborsare cifre
da capogiro per una sola mezz’ora a bordo della mia gondola.
Mi
piaceva la vita.
Finché
i traghettati non hanno cominciato ad assillarmi con nuove lamentele. Non
parlavano mai con me, se non per contrattare il prezzo del passaggio e la meta,
ma io ascoltavo sempre i loro discorsi, cercando di paragonarli a quelli dei
miei vecchi clienti.
«L’albergo non è di mio gradimento», ha
iniziato un mattino una donna ingioiellata, «Le tendine hanno un colore
orribile, per non parlare della moquette».
«Quell’affare mi ha fruttato meno della metà
di ciò che mi aspettavo», ha detto il cliente successivo, parlando al
cellulare.
«Guarda che fregatura questa sciarpa: tutta
rovinata», si è lamentata una ragazza.
«Possibile che l’affitto sia così caro negli
ultimi tempi?».
«Maledizione, non riesco a dimagrire».
«Disastri del governo».
«Ne ho piene le scatole delle polemiche sull’inquinamento».
«Un’altra truffa!».
Giorno
dopo giorno erano questi i discorsi che si susseguivano. Tutti a lamentarsi
delle tasse, della casa, del marito, della moglie, dei parenti, dei vicini di
casa, dell’insegnante e del datore di lavoro, del dipendente e dell’impiegato
dell’ufficio postale. Ho pazientato un giorno. Due. Tre. Una settimana. Un
mese. Ma mi sono presto reso conto che, per quanto tempo passasse, nessuno
voleva dimostrarsi minimamente soddisfatto della propria vita. Tutti vi
trovavano macchie, crepe, spruzzi di infelicità. Il ricco, il famoso, il sano.
Tutti avevano di che lamentarsi.
Il
trentaduesimo giorno ho ripreso jeans e camicia e ho mollato di nuovo
barca e remi, gettando il cappellino di paglia in mezzo al canale. Sono tornato
sui miei passi e ho superato di nuovo la porta di casa. Non mi aspettavano con
feste, rinfreschi e striscioni: quaggiù non funziona così. Ho semplicemente
imbracciato il grande remo nodoso e ho fatto salire sulla barca le anime in
attesa, assaporando con soddisfazione le loro lamentele sulla morte. Loro
si compiangevano per ciò che le aspettava per l’eternità e non per quel breve
istante effimero che non sarebbe più tornato. Ho imparato ad apprezzare i
sospiri per la vita, ma non ho mai più accettato le imprecazioni contro di
essa. Nemmeno il suicida è più stato per me l’emblema della capacità di
adattamento, sebbene io in quei pochi giorni mi sia comportato un po’come lui,
fuggendo l’esistenza che mi era stata assegnata.
Ma
credo di aver fatto un passo in più rispetto a quel poveraccio: io ho accettato
la mia condizione e ho ripreso le redini dell’esistenza a me destinata. Non ho
più tentato di cambiarla. L’assurdità del mio voler vivere era pari
all’insensatezza dei vivi di voler morire polemizzando in modo distruttivo
contro la vita. A me i polemici, gli incontentabili, come forse ho
lasciato intendere al mio confessore, non sono mai piaciuti.
Se
non altro, ci ho guadagnato un magnifico paio di mocassini.
Commento dell'autrice
Il racconto si intitola "Lasciate ogni speranza, voi ch'uscite" e il protagonista è Caronte, il traghettatore delle anime. L'ho scritto qualche anno fa perché ho provato ad immaginarmi questo singolare personaggio in un contesto attuale; mi sono chiesta: uno come lui, col suo carattere, che lavoro potrebbe fare nella realtà, come si potrebbe vestire? Come si rapporterebbe ai vivi uno che ha sempre avuto a che fare con le anime dell'inferno? Cercando di unire tradizione e ironia, ho buttato giù queste righe!
Con questo racconto ho partecipato ad un concorso letterario, per poi pubblicarlo, con qualche aggiustamento, su una rivista di fumetti e, infine, sul mio blog.
Con questo racconto ho partecipato ad un concorso letterario, per poi pubblicarlo, con qualche aggiustamento, su una rivista di fumetti e, infine, sul mio blog.
Commento di Aquila Reale
Ho letto il tuo scritto con il sorriso sulle labbra pensando a Caronte che si ribella alla sua condizione di lavoratore sfruttato, senza ferie! Immaginarlo poi a Venezia, come gondoliere moderno, è davvero un'immagine strepitosa. Brava Athenae!
Aspetto con curiosità i vostri commenti.
Alla prossima, la vostra Aquila Reale.
Alla prossima, la vostra Aquila Reale.
Rinnovo i complimenti per l'iniziativa del blog e i ringraziamenti per avermi dedicato questo spazio! Spero che il racconto possa piacervi, ma sono anche curiosa di ascoltare consigli che potrebbero essermi utili per le narrazioni future! :) Grazie dell'attenzione e buona lettura! Cristina.
RispondiElimina