mercoledì 31 agosto 2022

BLOGTOUR | “Trilogia Nera" di Léo Malet | I 5 motivi per leggere il romanzo

Grazie a Fazi Editore, nella Collana Darkside, torna nelle librerie italiane la “Trilogia Nera”, il manifesto letterario e capolavoro indiscusso di Léo Malet. La trilogia comprende tre storie disperate intrise di ferocia e crudeltà, che indagano la psicologia umana, l’anima criminale che si nasconde in ogni uomo. Quindi se siete pronti vorrei invitarvi a un tour nella Parigi noir e vi elencherò ben cinque motivi per intraprendere questo viaggio avventuroso.




Trilogia Nera
Léo Malet

Editore: Fazi
Pagine: 505
Prezzo: € 19,00
Sinossi
I romanzi La vita è uno schifo, Il sole non è per noi e Nodo alle budella, qui raccolti in un unico volume, formano la straordinaria Trilogia Nera di Léo Malet, un classico intramontabile della letteratura noir. Il giovane Jean Fraiger è alla guida di un gruppo di anarco-comunisti che intende sostenere il proprio progetto rivoluzionario con una serie di furti e rapine. Innamorato perdutamente di una donna bellissima e sfuggente, ben presto si ritroverà a condurre da solo una spietata lotta contro il mondo. André Arnal, aspirante artista, arriva a Parigi dalla provincia ma nel giro di poco finisce in prigione per vagabondaggio. Rilasciato dopo qualche mese, inizia una vita di espedienti e truffe insieme ad altri ragazzi come lui, senza una casa né un lavoro. Nemmeno l’arrivo dell’amore riesce a salvarlo da un destino che sembra segnato. Da quando Paul Blondel, piccolo truffatore, ha conosciuto Jeanne, per amore di lei è finito in una banda dedita al crimine. Ma tutte le notti ha un incubo ricorrente, un piccolo uomo grigio che lo tormenta e che presto inizierà a infestare anche i suoi giorni, costringendolo a fuggire da tutto e tutti, a cominciare da se stesso.



I 5 motivi per leggere il romanzo

1. Perchè la trilogia narra di uomini colpiti duramente dalla violenza sociale alla quale rispondono con la propria violenza che sarà autodistruttiva. La Trilogia comprende “La vita è uno schifo”, “Il sole non è per noi” e “Nodo alle budella”. I tre romanzi formano un classico intramontabile della letteratura noir e una pagina fondamentale della letteratura del Novecento francese. I primi due romanzi videro la luce tra il 1948 ed il 1949 mentre il terzo, “Nodo alle budella”, dovette attendere ben vent’anni prima di essere pubblicato perché inizialmente venne rifiutato dall’editore di Malet. 

2. Perchè sono storie che non lasciano scampo e il lieto fine è bandito insieme alla compassione umana. In ogni uomo è nascosto un mondo fatto di oscurità. 

“La vita è uno schifo”, pubblicato originariamente alla fine degli anni Quaranta, è considerato il romanzo apripista del noir francese. Racconta le imprese di un gruppo anarchico che finanzia l’azione rivoluzionaria con delle rapine. Jean Fraig, protagonista solitario, violento, anarco-comunista, ossessivamente innamorato di Gloria, donna bellissima e sfuggente, si ritrova a condurre da solo una spietata lotta contro il mondo fino al tragico e struggente epilogo. È un romanzo duro, romantico e violento. 

La trama di “La vita è uno schifo” è ispirata alle azioni della celebre banda Bonnot che, agli inizi del Novecento, terrorizzava la Francia utilizzando, come nel romanzo, veloci e inafferrabili automobili per portare a segno le proprie rapine. Capo della banda era Jules Bonnot, un operaio che prima di darsi al crimine politicizzato, era addirittura l’autista, secondo alcuni storici, di Sir Arthur Conan Doyle, ideatore di Sherlock Holmes.

“Il sole non è per noi” è un romanzo ambientato nel 1926, “l’epoca della gioia di vivere”, come annota con sarcasmo Malet. André Arnal, giovane squattrinato aspirante artista, giunge a Parigi e ben presto scopre come sia facile mettersi nei guai. Incarcerato per vagabondaggio, uscito dal carcere dopo qualche mese, sopravvive grazie a espedienti e truffe insieme ad altri ragazzi come lui, senza una casa né un lavoro. Quando incontra Gina, Andrè vi riconosce la ragazza che stava aspettando da tanto. Insieme cercheranno di cominciare una nuova vita, ma nulla è semplice come sembra. Il baratro è pronto ad accoglierlo mentre il sole illumina il benessere delle classi agiate e non si preoccupa di chi vive nell’ombra. André si accorgerà che la miseria non concede scampo, è come una maledizione, come un abbraccio mortale. 

“Nodo alle budella” narra di Paul Blondel, piccolo truffatore, che, per amore di una donna, è finito in una banda dedita al crimine. Ma tutte le notti ha un incubo ricorrente: un ometto grigio che lo tormenta e che presto inizierà a infestare anche i suoi giorni, costringendolo a fuggire da tutto e tutti, a cominciare da se stesso. Durante questa fuga Paul conosce Jeanne, una ragazza bellissima, e per amore di lei aumenta la portata delle proprie truffe finendo in una banda dedita a furti e rapine. Sarà costretto alla fuga senza speranza da chi lo ha tradito, da chi gli addebita i crimini che non ha commesso e soprattutto dalla propria sconfitta di uomo. Per combatterlo trasformerà la propria esistenza in un incubo ben peggiore dal finale amarissimo. 

3. Perchè gli elementi che costituiscono le magistrali storie della “Trilogia Nera” sono alla base di molti romanzi scritti da Léo Malet. L’amour fou (l’amore fatale, la passione ostinata e irragionevole) e l’impeto rivoluzionario, sogni che si vogliono ardentemente trasformare in realtà e incubi che sono la realtà, destini condannati senza scampo alla fine peggiore. I protagonisti Jean Fraiger (“La vita è uno schifo”, traduzione Luigi Bergamin), André Arnal (“Il sole non è per noi”, traduzione Luigi Bergamin) e Paul Blondel (“Nodo alle budella”, traduzione di Luciana Cisbani) sono “le vittime di un inciampo nella vita”, uno scherzo del fato dal quale risulterà impossibile riprendersi. L’autore sostiene che non esiste nessuna possibilità di redenzione, nessuna giustizia. Il male è una costante che spesso nasce dai vizi, dalla viltà, dalla disperazione, dalla rabbia, dall’amore dei protagonisti. Eppure ognuno giustifica le proprie azioni. 

4. Perché l’ambientazione ha il fascino della Parigi proletaria di metà secolo. Le storie ci portano nei bassifondi e nella periferia della città. Se leggerete con attenzione, riscoprirete temi autobiografici come il carcere, il vagabondaggio, l’anarchia. Il pessimismo regna sovrano e la vita finisce per assomigliare a un incubo da cui non ci si può svegliare. Tutti i romanzi vengono narrati in prima persona dagli infelici personaggi che sono, allo stesso tempo, colpevoli e vittime. Sono ambigui e oscuri ma, con loro, si crea immediatamente un’empatia profonda. 

5. Perchè Léo Malet riscrive il genere noir francese con uno stile semplice e diretto ma decisamente avventuroso. Il noir è un romanzo psicologico costruito intorno alla figura della vittima. Anzi è proprio la vittima la voce narrante del romanzo che racconta la propria discesa all’inferno senza alcuna possibilità di redenzione. Nei romanzi della trilogia non c’è un ordine interrotto da un evento criminale che vedrà la giustizia trionfare ricostituendo l’ordine iniziale. Nel noir di Malet gli eventi cambiano continuamente, non esistono regole da rispettare e non c’è un lieto fine inteso in modo convenzionale. La vittima-carnefice si rende conto della propria condizione, si ribella e riesce a sottrarsi alla legge diventando l’artefice di una situazione completamente differente da quella iniziale. 

Nella trilogia avrete l’opportunità di leggere due lettere che René Magritte scrisse a Léo Malet nel 1956. Viene trattato il clima entro il quale si è sviluppato il noir di espressione francofona. 

La “Trilogia Nera” è un mix di disperazione e tenerezza, amore folle e violenza. Godetevi questa lettura andando oltre la trama perché vien facile pensare che la disperazione, la casualità, la violenza fanno parte anche della vita reale. L’unica differenza è che Jean Fraiger, André Arnal e Paul Blondel vivono l’abisso e la violenza, mentre noi le leggiamo ma non le giudichiamo. Anzi ci si commuove per il destino dei tre protagonisti che non hanno un barlume di speranza. Il noir non è per chi ama sognare. Nell’oscurità delle storie tutti perdono.




venerdì 26 agosto 2022

RECENSIONE | "Mariti e mogli" di Ivy Compton Burnett

“Mariti e mogli” di Ivy Compton Burnett, Fazi Editore nella  Collana Le strade, è un’opera inedita in Italia che finalmente arriva nelle nostre librerie. È un romanzo che supera il concetto tradizionale di “famiglia”. Nessun “nido sicuro” ma un microcosmo d’infelicità dove non c’è amore, lealtà filiale e redenzione. Si assiste a un inesorabile disfacimento della bolla familiare, nessuna formula magica sarà in grado di fermare sentimenti ingovernabili che travolgeranno tutti.


STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 7
Mariti e mogli
Ivy Compton Burnett

Editore: Fazi
Pagine: 326
Prezzo: € 19,00
Sinossi

Harriet Haslam, severa madre di famiglia, è in grado di scatenare un uragano con poche parole, con un semplice gesto, con uno sguardo. La sua insofferenza verso il mondo, acuita dall’insonnia che la tormenta, spesso si tramuta in furia, nonostante la silenziosa opera di Godfrey, accomodante marito-cuscinetto. Il più grande cruccio della donna è il futuro dei quattro figli: Matthew, il maggiore, preferirebbe darsi alla ricerca invece di iniziare la sua pratica medica; Jermyn ha assurde aspirazioni da poeta; Griselda è decisa a sposare il reverendo Bellamy, fresco di divorzio, mentre Gregory preferisce la compagnia di tre anziane signore a quella dei coetanei. Dopo un litigio con il primogenito Harriet tenta il suicidio e viene quindi portata in un istituto, dove trascorre sei mesi. Al suo ritorno, la situazione che trova supera le sue peggiori aspettative: ognuno dei ragazzi ha fatto di testa propria e, come se non bastasse, anche il marito ha in serbo per lei una spiacevole sorpresa. È davvero troppo: Harriet non ha nessuna intenzione di restare in silenzio.


Mamma, non so se ti rendi conto di quanto sia insensato il tuo comportamento. Che vantaggio trovi nell’allontanare tuo marito e la tua famiglia, nell’affondare sempre di più in questo tuo egoismo amaro? Non cambieremo le nostre vite, non rinunceremo ai nostri obiettivi per i capricci di una donna. Puoi avere le tue opinioni, certo. Noi abbiamo le nostre.

Harriet Haslam è una madre severa e donna manipolatrice che non tollera di perdere il controllo su tutti i membri della famiglia. Con uno sguardo, un gesto, con poche parole, la donna è in grado di scatenare un uragano. La sua insofferenza verso il mondo, acuita dall’insonnia che la tormenta, si trasforma spesso in furia. Godfrey, accomodante marito-cuscinetto, cerca di porre un freno al comportamento della moglie. Il più grande cruccio della donna è il futuro dei quattro figli:

Matthew, il maggiore laureato in Medicina, preferisce dedicarsi alla ricerca scientifica invece di iniziare la sua pratica medica; Jermyn ha assurde aspirazioni da poeta; Griselda è decisa a sposare il reverendo Bellamy, fresco di divorzio; Gregory preferisce la compagnia di tre anziane signore a quella dei coetanei.

Dopo un litigio con il primogenito, Harriet tenta il suicidio e viene portata in un istituto dove trascorrerà sei mesi.

Gregory, ho fatto una cosa che non avrei mai dovuto fare. Ho preso qualcosa che mi farà star male e che se farà il suo lavoro mi separerà da voi per sempre. Ora che ci sono vicina, non ne ho più il coraggio. Voglio restare qui, con voi. Devo avere la mia vita: ho solo cinquantasei anni; credevo di essere tanto vecchia! Fa’ qualcosa per salvarmi.

Al suo ritorno, la situazione che trova supera le sue peggiori aspettative. Ognuno dei suoi figli ha fatto di testa propria e anche il marito ha in serbo per lei una spiacevole sorpresa. È davvero troppo, Harriet non può restare in silenzio e affronta, uno dopo l’altro, i membri della famiglia.

Vieni, Harriet, vieni mia cara. Entra nella tua casa. Varca la soglia e torna nella tua vecchia vita. L’altra è stata soltanto un sogno. Ecco, sei di nuovo nel tuo nido. I tuoi figli corrono a darti il benvenuto, veloci quanto possono, ansiosi di vedere la loro mamma che torna a casa! Sì, sì, figlioli miei, baciate la vostra mamma. Salutatela come se fosse stata via solo per pochi giorni.

Ivy Compton Burnett è una scrittrice geniale che io amo molto per la sua scrittura affilata e arguta, elegante e caustica, con cui svela le ipocrisie e i segreti custoditi nelle famiglie. I suoi romanzi sono finestre spalancate sull’infelicità familiare. Sono un gioco crudele di sotterfugi, cattiverie e dialoghi avvelenati, in cui prevalgono gli aspetti tirannici e claustrofobici della vita famigliare. I segreti celati tra le mura domestiche spesso riguardano crimini efferati che non hanno mai una punizione. Non ci sono soluzioni ma la visione di un’ambiente familiare che ricorda una ragnatela, una prigione, un fiore velenoso, una tomba.

In “Mariti e mogli” risplende la figura di Harriet, la cui tirannia le costerà molto cara. Attorno a lei si ruotano, mossi da un desiderio di sfida, i membri della sua famiglia sempre pronti a ingaggiare una battaglia quotidiana su più fronti. Apparentemente in casa Haslam tutto sembra tranquillo ma si percepiscono le tensioni sotterranee, i quotidiano battibecchi, i giochi di potere e le battute glaciali che nascondono interi universi. Inesorabilmente si innesca un effetto domino, ogni personaggio farà cadere la maschera mostrando la sua vera natura e mescolando le carte in tavola. La tensione sale  fino a giungere alla realizzazione di un atto efferato che mostrerà il lato oscuro di ognuno.

“Mariti e mogli” è un romanzo crudele in cui l’umorismo pungente si mescola con la tragedia. Un romanzo cupo e toccante in cui i personaggi sono fluidi e mutevoli, si nutrono di una forza distruttiva e danno libero sfogo alle loro illusioni di cui si nutrono per sopravvivere. Non si rendono conto della loro lenta discesa all’inferno. Mentre Harriet era ricoverata in istituto, tutti i componenti della famiglia hanno costruito un fragile castello di sabbia che, con il ritorno della donna, ha iniziato a sgretolarsi. Ognuno ha sognato il prorio futuro senza fare i conti con la crudezza della vita reale, sotto la pelle morbida e delicata dell’ambiente famigliare, si agitano orribili verità.

 “Mariti e mogli” è un altro gioiello da aggiungere alla preziosa collezione dopo “Più donne che uomini”, “Il capofamiglia” e “Servo e serva”.

martedì 2 agosto 2022

RECENSIONE | "Il Duca" di Matteo Melchiorre

“Il Duca” (Einaudi) di Matteo Melchiorre, è un romanzo epico, classico eppur nuovo che invita a riflettere sulla libertà individuale, sulla forza magnetica del passato, sulle leggi della natura e sulla furia del potere. Narra la storia dei Cimamonte, conti dal Quattrocento, ma da mezzo secolo per i montanari di Vallorgàna sono diventati i “duchi”. L’ultimo dei Cimamonte è, dunque, “il Duca”: un uomo che non possiede nulla se non quello che hanno posseduto i suoi avi, un uomo la cui storia è principalmente la storia di chi ha vissuto nella grande villa addossata alla Montagna che incombe sulla Val Fonda.

STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 7
Il Duca
Matteo Melchiorre

Editore: Einaudi
Pagine: 464
Prezzo: € 21,00
Sinossi

Un paese di montagna, un'antica villa con troppe stanze, l'ultimo erede di un casato ormai estinto, lo scontro al calor bianco tra due uomini che non sembrano avere nulla in comune... Quanto siamo fedeli all'idea di noi stessi che abbiamo ricevuto in sorte? Matteo Melchiorre ha costruito una storia tesissima ed epica sulla furia del potere, le leggi della natura e la libertà individuale. Un romanzo che ci interroga a ogni riga sulla forza necessaria a prendere in mano il proprio destino: «il modo giusto per liberarsi del passato non è dimenticarlo, ma conoscerlo». L'ultimo erede di una dinastia decaduta, i Cimamonte, si è ritirato a vivere nella villa da sempre appartenuta alla sua famiglia. La tenuta giganteggia su Vallorgàna, un piccolo e isolato paese di montagna. Il mondo intorno, il mondo di oggi, nel quale le nobili dinastie non importano più a nessuno, sembra distante. L'ultimo dei Cimamonte è un giovane uomo solitario che in paese chiamano scherzosamente «il Duca». Sospeso tra l'incredibile potere del luogo, il carico dei lavori manuali e le vecchie carte di famiglia si ritrova via via in una quiete paradossale, dorata, fuori dal tempo. Finché un giorno bussa alla sua porta Nelso, appena sceso dalla montagna. È lui a portargli la notizia: nei boschi della Val Fonda gli stanno rubando seicento quintali di legname. Inaspettatamente, risvegliato dalla smania del possesso, il sangue dei Cimamonte prende a ribollire.



Chiamandomi il Duca i paesani o sottointendevano che ero strambo al pari di mio nonno, benché di una stramberia per forza di cose assai diversa, o deridevano il declino del mio casato

L’ultimo erede di una dinastia decaduta, i Cimamonte, si è ritirato a vivere nella villa da sempre appartenuta alla sua famiglia. La tenuta giganteggia su Vallorgàna, un piccolo e isolato paese di montagna. Il mondo di oggi, nel quale le nobili dinastie non importano più a nessuno, sembra distante. L’ultimo dei Cimamonte è un giovane solitario che in paese chiamano scherzosamente “il Duca”. Sospeso tra l’incredibile potere del luogo, il carico dei lavori manuali e le vecchie carte di famiglia si ritrova a vivere in una quiete paradossale, dorata, fuori dal tempo. Finchè un giorno bussa alla sua porta Nelso, appena sceso dalla montagna, per portagli la notizia: nei boschi della Val Fonda gli stanno rubando seicento quintali di legname. Il taglio fuori confine è un affronto.

Ti hanno fregato Duca. Su in Montagna, nei tuoi boschi. Ti hanno fregato.

 Il Duca, risvegliato dalla smania di possesso, sente ribollire in lui il sangue dei suoi avi. All’orizzonte appare il cattivo, il suo nome è Mario Fastréda.

Un paese di montagna, un’antica villa, l’ultimo erede di un casato estinto e lo scontro tra due uomini che non sembrano avere nulla in comune. Inizia così “Il Duca”, la storia di una casata che, con un ultimo guizzo di energia, annulla il suo lento annientamento. A Vallorgàna il Duca conduceva una vita solitaria, studiava le carte di famiglia convinto che la storia dei suoi avi sia l’artefice del suo presente. Egli si sentiva “frutto” dell’antico ordine e finiva per assomigliare a un fantasma. Le sue giornate scorrevano tra passeggiate in montagna, osservando i suoi boschi, e la gestione dei terreni. La quiete della sua esistenza va in frantumi grazie a Mario Fastréda, un allevatore tignoso e prepotente, temuto da tutti. Egli ha sconfinato di proposito nelle terre dei Cimamonte, ha tagliato numerosi alberi e ha dato inizia a una vera e propria guerra dei confini. Il paese, che aveva accolto bene il Duca perché non spadroneggiava, si divide. In molti si schierano con Mario, in pochi con il giovane Cimamonte. La discordia, l’odio, l’avidità confondono le carte, seminano inganni e mostrano la malvagità degli esseri umani.

Mai avrei creduto di incontrare la discordia proprio qui, a Vallorgàna, dove il peso del mondo si immaginerebbe che sia lieve, e il vivere essenziale e senza scorie, e le leggi umane, antichissime, sempre giuste e ottimamente operanti. Infida. Sleale. Subdola. Meschina. Così sarebbe stata la discordia destinata a imperversare, per mesi e mesi, nelle mie giornate, disseminandole di insensatezze, consumando il tempo, infettando e viziando ogni cosa.

Il duello tra il Duca e Fastréda si fa sempre più aspro. Il nobile non cede, anzi in lui avviene un cambiamento. Il Duca depone la sua remissività per manifestare l’istinto da padrone. “La morale intossicante delle carte degli avi” inizia a scorrere nelle sue vene, una irrequietezza nuova lo pervade, un astio, un’antipatia che hanno un unico nome, Mario Fastréda. Perché l’anziano allevatore odiasse tanto il Duca non è dato di sapere, un mistero che verrà svelato pian piano.

Nelle case, al di là delle porte, stanno racchiuse molte storie, delle quali si conoscono, se va bene, pochi brandelli appena; e diviene perciò impossibile capire pienamente il perché delle cose e delle persone. Secondo Nelso, a questo proposito, i paesani di una volta sapevano tacere, e nascondere i fatti propri.

In molti, primo tra tutti Nelso Tabiona, portatore di valori e furbizie contadine, mettono in guardia il Duca dai pericoli che corre mettendosi contro Fastréda, ma ormai il dado è tratto e la saggezza popolare non viene ascoltata. Il Duca rinasce a nuova vita, lui che trascorreva le sue giornate studiando, riordinando e conservando i tanti documenti storici della sua famiglia, ora alza la testa “dalle sudate carte”. Il passato è il suo mondo, i luoghi che hanno visto il dominio dei suoi avi sono le sue radici. Nella boiserie della villa  si custodiva il mondo dei suoi antenati: distese di terreni, torme di fittavoli, braccianti, servitori e fantesche. Il Duca è “ l’archeologo di se stesso”.

Cos’altro facevo, infatti  se non scavare senza sosta? La villa, le carte dell’archivio, i dipinti e gli altri oggetti dei miei avi, la Chronica Cimamontium, Vallorgàna, la Montagna.

In questo mondo antico ci conduce Matteo Melchiorre e il lettore si ritrova conquistato da una storia senza tempo. Il passato appare come un eterno presente in cui il Duca è il cavaliere senza macchia e Fastréda è l’eroe negativo, un antagonista che scopriremo pian piano. Un ruolo cardine è svolto dalla Natura: i boschi, considerati entità vive, gli eventi atmosferici che scandiscono la vita degli uomini, il ciclo delle stagioni. Su tutto incombe l’ombra minacciosa di eventi estremi. Una natura che si ribella al volere dell’uomo.

Il bosco è così. Dà l’illusione di essere fermo e invece si muove. Cammina, ma così lentamente e astutamente da lasciarci per lungo tempo inconsapevoli di quel suo immenso e incontrastato avanzare.

“Il Duca” è un microcosmo di racconti, di persone, di memorie che guardano a un passato segnato da una disuguaglianza incolmabile tra coloni e padroni. Una distanza intrisa di riverenze e disprezzo. Il diabolico Fastréda non teme di rimettere in moto il pendolo della discordia che oscilla tra lui e il Duca. Nel mezzo persone che indossano delle maschere per schierarsi da una parte o dall’altra. I personaggi hanno a disposizione una vasta gamma di maschere: l’Estraneità, l’Iroso, lo Stolto, l’Impassibile, il Consigliere, il Disperato. Fastréda manifesta il suo disprezzo verso coloro che si sono arricchiti senza far nulla, grazie ai privilegi dei loro avi, ma in lui l’odio è così profondo da far sospettare un motivo ancor più rilevante. Il Duca difende con orgoglio i suoi privilegi. La comunità di Vallorgàna assiste a questa disputa e a ogni mossa segue una contromossa. L’iniziale contrasto sui confini violati, si moltiplica all’insegna delle maldicenze di paese che affondano le lame nel retaggio del valore, dell’onore e del passato lustro. Andando avanti con la lettura scopriremo i piedi d’argilla della formazione individuale del Duca. Egli ha modellato la sua vita sulla vita dei suoi avi, non si è mai allontanato dal solco che la casata dei Cimamonte ha segnato. Il Duca, i suoi genitori sono deceuti a causa di un incidente, si è limitato a gestire l’ingente patrimonio ma non ha mai fatto nulla per realizzare se stesso. A distinguerlo dagli altri è il sangue nobile che scorre nelle sue vene. Basta questo per identificarlo?

Il sangue è in fondo una semplice metafora. Si dice sangue per dare un nome alle infinite e imprecisabili cose che scorrono dentro una persona: generazioni di storie, gomitoli di educazioni, alveari di convincimenti, ragnatele di relazioni, sterpaglie di consuetudini, antologie di disgrazie.

Maria, una fanciulla del paese, cerca di smuovere il Duca dalla sua apatia esistenziale, cerca di allontanarlo da quell’ossessione per il passato che lo condiziona in ogni momento.

Sei prigioniero di te stesso. Ti sei costruito una gabbia? Bene. Vuoi restarci dentro? Restaci.

E ancora:

Rumini sempre. Pensi. Ripensi. Pensi ancora. Ripensi di nuovo. Ma non vedi che notte, invece? Non la senti?

Il Duca appare come prigioniero del glorioso passato della sua famiglia. La Villa, Vallorgàna in particolare, è la sua prigione con tutta la sedimentazione storica di cose e genealogia. Proprio tra quelle carte il Duca ritroverà un manoscritto “La Chronica Cimamontium Anno 1495”. Raccontata dagli stessi avi la storia dei Cimamonte, dal secolo XV all’inizio del Settecento, assume le sfumature di un giallo storico.

“Il Duca” è un romanzo che narra l’anamnesi della trasformazione di una coscienza, ha in sé la forza per provocare, svegliare chi dorme e non dovrebbe dormire, per frantumare certezze e far confusione tra la nobiltà sedimentata nel tempo e il modo di pensare e di fare propri di chi è succube di un potere. Ogni trasformazione parte da una presa di coscienza, da un’assunzione di responsabilità per poter cambiare. “Il Duca” ci racconta che non siamo soli, che ci sono gli altri con le loro storie, le loro idee, i loro problemi. Per guardare al mondo di domani occorre far luce su come siamo stati nel passato.

 Il modo giusto per liberarsi del passato non è dimenticarlo, ma conoscerlo.

Conoscere il passato serve a cicatrizzare le ferite che il tempo ha inciso sulla nostra pelle. Tutto si tramanda anche quelle maschere che gli uomini indossano per mettere in scena le ricchezze e le povertà, i vizi e le virtù, le infelicità e le passioni.

Il romanzo di Matteo Melchiorre racchiude la forza evocativa delle parole e rivela l’amore dello scrittore per la storia medioevale. Leggendo mi è sembrato di camminare tra le strade di Vallorgàna, salire per i sentieri di montagna, studiare le carte con il Duca, condividere i suoi pensieri e guardare, attraverso i suoi occhi, a quel passato che ci regala un futuro migliore. Un futuro fatto di libertà.