lunedì 16 luglio 2018

RECENSIONE | “Un’estate in montagna” di Elizabeth Von Arnim

Cari lettori, tra le innumerevoli novità editoriali vorrei segnalarvi l’uscita di un romanzo che mi ha già conquistata per il titolo e per il nome dell’autrice, una sicurezza di letture piacevoli e riflessive. Si tratta di “Un’estate in montagna” di Elizabeth Von Arnim, collana “Le strade”, Fazi Editore.

La scrittrice Elizabeth Von Arnim, pseudonimo di Mary Annette Beauchamp, nacque a Kiribili Point, in Australia, da una famiglia della borghesia coloniale inglese. Visse a Londra, Berlino, in Polonia e infine negli Stati Uniti. Si sposò due volte – entrambi matrimoni infelici – ed ebbe cinque figli. Fra un matrimonio e l’altro fu l’amante di H.G. Wells. È stata una scrittrice molto prolifica e di grande successo. Fazi Editore ha pubblicato “Un incantevole aprile” (2017), “Il giardino di Elizabeth” (2017, recensione) e “La fattoria dei gelsomini” (2018, recensione).

“Un’estate in montagna” è la storia di Elizabeth, della sua perduta felicità e della cocente infelicità che l’hanno portata sui suoi monti come ultima speranza.

STILE: 7 | STORIA: 7 | COVER: 7
Un'estate in montagna
Elizabeth Von Arnim (traduzione di S. Terziani)

Editore: Fazi
Pagine: 189
Prezzo: € 15,00
Sinossi
Luglio 1919. Dopo una lunga camminata, Elizabeth giunge al suo chalet in montagna e, ancora prima di entrare, si accascia sull'erba fuori dalla porta. È stanca, sfinita, devastata dagli orrori della guerra. Come un animale ferito, cerca sollievo nella solitudine e nella bellezza del luogo: le estati, fra le montagne svizzere, sono calde e fresche insieme, le notti immense e quiete, i pendii profumano di miele. Fino a pochi anni prima, però, la casa, ora così silenziosa, era piena di amici. Ma il giorno del suo compleanno, Elizabeth riceve un regalo inatteso: due donne inglesi giungono per caso allo chalet in cerca di un posto dove riprendere fiato dalla passeggiata e dal sole. La padrona di casa le accoglie, prima per un pranzo, poi per un tè, poi per qualche settimana. E una scintilla di speranza si riaccende. All'allegro terzetto, infine, si aggiunge anche zio Rudolph, un pastore anglicano sessantenne che immancabilmente si innamora della più giovane delle due ospiti, quella con il segreto più vergognoso e il passato più scandaloso...







Luglio 1919. Elizabeth, devastata dagli orrori della guerra, decide di trascorrere l’estate nel suo chalet in montagna cercando sollievo nella solitudine e nella bellezza del luogo. La casa, un tempo piena di amici, ora è silenziosa e quieta. Ma il giorno del suo compleanno, Elizabeth riceve una visita inattesa: due donne inglesi giungono per caso allo chalet in cerca di un posto dove riposare dopo una lunga passeggiata.
Ah, che sollievo e conforto è stato vederle! Due esseri umani chiaramente rispettabili, persone in carne e ossa, non ladri, non fantasmi, e neppure appartenenti al sesso che siamo soliti associare al saccheggio; soltanto due donne oneste, vive e vegete, complete in ogni loro dettaglio, persino dotate di ombrello.
La padrona di casa le accoglie con entusiasmo e le due visitatrici rimarranno allo chalet per qualche settimana. A loro si unirà zio Rudolph, un pastore anglicano sessantenne, che si innamora della più giovane delle due donne. La ragazza, però, custodisce nel suo scandaloso passato un vergognoso segreto.

Dopo aver letto altri libri della Von Arnim, posso dire di apprezzare i suoi racconti lineari senza mirabolanti intrecci e con pochi personaggi sempre ben delineati. La scrittura, elegante con una vena di spietata ironia,  e il ritmo veloce mi permettono di godere appieno di una lettura sempre varia ma con elementi in comune. Nei romanzi della scrittrice sono sempre presenti il suo grande amore per la natura, la descrizione delle piccole felicità quotidiane, il tema della fuga, l’importanza dei rapporti sociali, il desiderio di emancipazione e di indipendenza femminile.

“Un’estate in montagna” è un libro scritto in forma di diario, è una dichiarazione d’amore alla montagna e ai suoi splendidi paesaggi, è un indicatore del potere terapeutico che la Natura, con le sue bellezze, esercita sull’animo sofferente.

Elizabeth è sola, la guerra le ha mostrato la malvagità umana lasciandola infelice e senza un briciolo d’energia. In montagna vuole ritrovare se stessa e la voglia di vivere, vuole ritornare a credere in Dio, la Natura diventa la sua terapia. Tutto è particolarmente difficile.
L’unica cosa da fare con le proprie sofferenze passate è avvolgerle ben bene nel loro sudario, seppellirle e poi voltare le spalle alla tomba per guardare il futuro.
Pian piano la speranza torna a far capolino nel cuore della padrona di casa grazie al provvidenziale arrivo delle gentili ospiti.
Sì, ho una gran paura della solitudine, mi dà i brividi e mi scuote nel profondo. Non parlo della banale solitudine fisica, ma piuttosto della tremenda solitudine dello spirito che rappresenta la tragedia suprema di ogni vita umana. Se ci arrivi veramente, a quella solitudine priva di speranza e di vie di fuga, allora muori; non ce la fai a sopportarla, e muori.
Quanta tristezza e desolazione in queste parole! I sentimenti della protagonista mi hanno coinvolta e ho provato ad immaginare cosa si possa provare ad assistere alla distruzione fisica e spirituale del proprio mondo.
È vero, il peggior dolore è ricordare la felicità di un tempo nel presente infelice.
In questo romanzo il carattere femminile  si mostra in numerose sfumature. Ogni dialogo, ogni situazione, ogni confidenza ci parlano di quanto sia complesso e difficile il ruolo della donna nella società. Il tutto è raccontato in forma di diario che, più che un rifugio privato, è un testimone degli eventi. È  sorprendente la semplicità con cui l’autrice passa da un momento drammatico a una visione leggera della vita. Tra una tazza di tè e un pasticcino si intrecciano i destini di tre donne che l’arrivo di un uomo riporterà ognuna nel suo ruolo sociale ben definito. Almeno fino al prossimo romanzo! Ho appena finito “Un’estate in montagna” ed Elizabeth già mi manca!

giovedì 12 luglio 2018

RECENSIONE | "L'uomo sbagliato" di Salvo Toscano [Review Party]

Cari lettori, se le vostre vacanze vi concedono un po’ di tempo libero da dedicare ai tanto amati libri, vorrei proporvi un giallo in grado di regalarvi qualche ora di sano relax "libroso".

Con “L’uomo sbagliato. Le indagini dei fratelli Corsaro.”, lo scrittore e giornalista Salvo Toscano torna oggi in libreria per Newton Compton Editori.

STILE: 7 | STORIA: 8 | COVER: 6
L'uomo sbagliato
(Le indagini dei fratelli Corsaro #6)
Salvo Toscano

Editore: Newton Compton
Pagine: 286
Prezzo: € 9,90
Sinossi
Palermo. Cosimo Pandolfo è in galera da anni per l'omicidio di Giovanni Cannizzaro. Alla base del delitto, una banale questione di vicinato. Però Pandolfo, uomo violento e dedito all'alcol, si è sempre dichiarato innocente. Solo il figlio Filippo gli crede. E quando una testimone in punto di morte gli racconta una verità rimasta nascosta, che potrebbe scagionare il padre, il ragazzo si rivolge ai fratelli Roberto e Fabrizio Corsaro, noti per la loro abilità nel risolvere i casi più difficili. Avvocato il primo, giornalista il secondo, indagheranno seguendo piste diverse e arriveranno a scoperchiare un calderone di segreti, inganni e brutali violenze, che porta fino all'Iraq e agli orrori della guerra. La vittima, infatti, ha trascorsi da mercenario, sui quali aleggia l'inquietante spettro di un'organizzazione internazionale che dalla Sicilia muove i suoi fili nelle zone di guerra. Roberto e Fabrizio sfideranno un avversario pericoloso e senza scrupoli. Mettendo a rischio la loro stessa vita.

I semi del male germogliano rapidi, mettono radici robuste e profonde con cui infestano e avvelenano tutto ciò che incontrano sulla loro strada, generando altro male e altra ingiustizia. Le cattive scelte degli uomini possono provocare valanghe di dolore.
Palermo. Cosimo Pandolfo è in galera da anni, accusato dell’omicidio di Giovanni Cannizzaro, per futili questioni di vicinato. L’uomo, seppur violento e dedico all’alcol, si è sempre dichiarato innocente. Gli crede solo il figlio Filippo.
Ci sono uomini sbagliati in giro per il mondo. Cosimo Pandolfo era stato uno di questi. Uno di quelli che ti insinuano il sospetto che l’umanità non sia altro che un esperimento andato male.
Quando nuovi elementi sembrano deporre a favore dell’innocenza di suo padre, Filippo si rivolge ai fratelli Corsaro, noti per la loro abilità nel risolvere i casi più difficili. Fabrizio Corsaro, giornalista di cronaca nera, e Roberto Corsaro, avvocato penalista, indagheranno seguendo piste diverse e giungeranno a scoperchiare un calderone di segreti, inganni e brutali violenze che portano fino all’Iraq, ai contractors e agli orrori della guerra. I fratelli Corsaro non si fermeranno davanti a niente, sfideranno un avversario pericoloso mettendo a rischio la loro stessa vita e le persone che amano.

Autore della saga dei fratelli Corsaro, Salvo Toscano è considerato uno degli autori emergenti della “scuola palermitana” del noir. È giornalista e autore dei romanzi “Ultimo appello”, “L’enigma Barabba” e “Sangue del mio sangue”. È stato semifinalista al Premio Scerbanenco e finalista al Premio Zocca Giovani. Con la Newton Compton ha pubblicato “Insoliti sospetti”, “Falsa testimonianza” e “Una famiglia diabolica” (recensione).

“L’uomo sbagliato” è un giallo avvincente caratterizzato da una scrittura essenziale e senza orpelli che consente una lettura senza fatica lasciando al lettore la calma emozione per apprezzare un giallo intrigante.

Lo scrittore sceglie ancora Palermo, splendida città siciliana dal fascino indiscusso, per ambientare le nuove indagini dei fratelli Corsaro. Le loro voci si alternano nella narrazione offrendo due punti di vista diversi della stessa storia. Fabrizio e Roberto Corsaro sono l’uno l’opposto dell’altro ma entrambi sempre pronti ad ascoltare le voci dei deboli.

Fabrizio è istintivo, confusionario e casanova moderno. Roberto è un avvocato riflessivo e preciso, irreprensibile padre e marito. Si completano a vicenda e insieme sono una forza investigativa molto valida.

Il giallo, a firma Salvo Toscano, si compone di tre parti che hanno in comune il tentativo di porre rimedio a un’odiosa ingiustizia. 330 anni fa, Jean de La Bruyèr scrisse :
Un colpevole punito è un esempio per la canaglia. Un innocente condannato è cosa che riguarda tutti gli uomini onesti.
Condivido la necessità di porre rimedio a un errore giudiziario senza alcun pregiudizio. Tra le righe troverete spunti di riflessione che arricchiscono il giallo senza intralciare il tipico costrutto di crimine, indagine e soluzione del caso. Ho trovato interessante il soggetto delle compagnie militari private coinvolte nella storia che richiamerà la vostra attenzione sui traffici internazionali di guerra, sulle prostitute bambine e sulla guerra in Iraq. Tra realtà e finzione, con la presenza di un umorismo fine e ben dosato che alleggerisce il coinvolgimento emotivo di protagonisti e lettori, lo scrittore scrive grandi verità. Tutti noi siamo cattivi a modo nostro e abbiamo seminato, anche se in diversa misura, dolore con le nostre scelte.

“L’uomo sbagliato” è un buon romanzo nato da un mix, sapientemente dosato, di elementi narrativi che danno vita a un intreccio mai banale e con uno sviluppo che cattura l’attenzione del lettore. La trama è il vero giallo condito da un umorismo mai eccessivo che vede i due protagonisti, i fratelli Corsaro, che ci mostrano, senza filtri, la loro vita pubblica e privata. Non sono due eroi ma hanno fragilità che li rendono simpatici e io ho un debole per gli anti-eroi.


martedì 10 luglio 2018

RECENSIONE | "Caterina" di Vincenzo Zonno

Carissimi lettori, ieri ho concluso la lettura di un romanzo che mi ha coinvolta in un turbine di emozioni scaturite da una scrittura incisiva e poetica che da voce al dolore nato dal male.
Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvagie, ma a causa di coloro che stanno a guardare senza fare niente. (Albert Einstein)
Il libro, oggetto della mia recensione, è “Caterina” di Vincenzo Zonno per la collana Ombre di Watson edizioni.
STILE: 8 | STORIA: 8 | COVER: 8
Caterina
Vincenzo Zonno

Editore: Watson
Pagine: 152
Prezzo: € 14,00
Sinossi
Cat è un'adolescente che, dopo aver perso prematuramente la madre, vive e lavora nel piccolo circo itinerante gestito dal patrigno. Sogna di diventare una funambola, ma la realtà è dura e avara di soddisfazioni. L'uomo che dirige la compagnia e che dovrebbe farle da padre è severo e autoritario, così come il resto degli artisti che provano invidia o indifferenza. Quando il circo si stabilisce in una foresta isolata dal più vicino centro urbano iniziano ad accadere eventi misteriosi. La natura che li circonda sembra nascondere segreti al limite dell'illusione, in un continuo vortice onirico, sempre a metà tra il sogno spettrale e la realtà, tra l'allucinazione e la macabra certezza di essere osservati. Qualcosa di oscuro si muove tra le ombre del tempo.


Attraverso un minuscolo vetro non più giovanissimo e corrotto in tutta la propria circonferenza, l’anima selvaggia della natura entrò giusto un paio di minuti e osservò questo esile e nuovo mondo. E si stupì di ciò che vide.
Con queste parole ricche di promesse inquietanti, lo scrittore ci accoglie in un mondo affascinante e profondamente pervaso da un freddo sentimento di morte. Tra sogno e realtà il romanzo presenta varie chiavi di lettura ma sicuramente seduce il lettore con un abbraccio dall’intensa  emozione affettiva.

Cat era una ragazzina orfana di madre. Viveva e lavorava nel piccolo circo itinerante gestito dal patrigno “Boris il Bulgaro”, un uomo arrogante e violento. Per lei mai una parola gentile, tutti la consideravano pura manovalanza. Eppure Cat sognava un numero da funambola sulla corda elastica. Sognava un rapporto diverso con gli artisti del circo che provavano, per lei, solo invidia o indifferenza. Conosceremo gli acrobati Boris e Ivan, Tania e i suoi barboncini ammaestrati, Tony lanciatore di coltelli e il Bulgaro con i suoi burattini. Saremo spettatori del circo e della sua magia fatta di luci e ombre, sorrisi e tristezza, gioia e dolore.

Quando il circo si stabilisce in una foresta isolata, iniziano ad accadere eventi misteriosi. La natura che li circonda sembra nascondere segreti al limite dell’illusione che innescano un vortice onirico sospeso tra il sogno spettrale e la realtà. Dal passato giungono voci straziate dal dolore e il circo non regalerà più sogni ma “qualcosa” trasformerà l’incanto in un terribile incubo.

Cat è un’adolescente dal passato avvolto nel mistero, custodisce nella sua mente violenze mai narrate camminando in equilibrio sul filo della follia. Nel romanzo il mondo si capovolge, i carnefici diventano prede e la vendetta si maschera da giustizia. In una luccicante metafora ho interpretato il romanzo come una resa dei conti sul territorio della follia. Riflettete un attimo e pensate quante volte, noi tutti, ci siamo comportati da burattini mossi da fila invisibili che plasmano le nostre azioni e sfregiano la nostra anima. Capita di volger lo sguardo altrove davanti all’ingiustizia. Non vedere, non sentire e non parlare! La realtà allora si capovolge e Vincenzo Zonno (se non lo avete già fatto leggete “Non è un vento amico”, romanzo storico prima opera dell’autore) non fa sconti a nessuno e ci presenta le conseguenze delle nostre azioni creando un romanzo dove il confine tra sogno e realtà si confonde fino a naufragare nell’orrore. Tra le pagine del libro respirerete la paura, in un crescendo di tensione emotiva, con forme che appaiono dal nulla e nel nulla svaniscono. In un mondo ostile Cat ha subito particolari attenzioni che le hanno lacerato l’anima. Le molestie di ieri diventano i moventi di oggi!
Quando è il buio a comandare, chiunque può essere il mostro, chiunque la vittima.
Prestate molta attenzione alla cover del libro realizzata da Vincenzo Pratticò. Il potere evocativo di questa immagine mi ha coinvolta subito pensando a viaggi onirici e riflettendo sulla figura del cigno nero.
La mia anima è un battello incantato che come ogni cigno addormentato fluttua sulle onde d’argento del tuo canto. (Percy Bysshe Shelly)
Così come il cigno nero è una nascita rara anche la natura può sfuggire ai modelli che tutti conosciamo. L’uomo ama il tangibile, ciò che può toccare e vedere. Teme, invece, ogni cosa che sfugge al suo controllo. Per me Cat è un cigno nero tra tanti cigni bianchi. Vedete la nostra conoscenza è fragile perché la realtà non è il bianco assoluto, dobbiamo accettare l’eccezione del cigno nero. Cat è un’eccezione! Rappresenta l’incertezza del ruolo, ciò che non si conosce ha sicuramente più fascino di ciò che si sa. Cat è fascino! 

Il finale di questo intenso thriller psicologico è davvero enigmatico. Cat intraprenderà un lungo viaggio verso un’isola misteriosa. La ragazzina appare prigioniera della sua follia ma i confini, si sa, non limitano ma liberano l’anima. Ora lasciate che il cigno nero si rifletta nei vostri occhi. Lasciate che il flusso di profonde emozioni conquisti la vostra razionalità e accomodatevi, al circo della vita lo spettacolo sta per iniziare.

giovedì 5 luglio 2018

RECENSIONE | "La famiglia Aubrey" di Rebecca West

Oggi, 5 luglio 2018, troverete nelle librerie il primo romanzo di una serie profondamente autobiografica a firma Rebecca West. Si tratta di un libro corposo che vi sorprenderà per i suoi personaggi indimenticabili: “La famiglia Aubrey”, traduzione di Francesca Frigerio, Fazi Editore.

Se avete voglia di venire con me, entreremo nelle stanze di casa Aubrey per vivere la loro strana allegria mentre, in circa un decennio, si tratteggiano già i loro destini. Conosceremo  una famiglia di artisti dove niente è semplicemente quello che sembra. In questo romanzo Rebecca West restituisce una visione romanzata della sua infanzia, tra musica, politica e preoccupazioni finanziarie volgendo lo sguardo anche alle tensioni sociali e alle inquietudini di un’Europa alle soglie del Novecento.
STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 8
La famiglia Aubrey
Rebecca West (traduzione di F. Frigerio)

     Trilogia degli Aubrey    
#1 La famiglia Aubrey

#2 Nel cuore della notte (recensione)
#3 Rosamund (recensione)

Editore: Fazi
Pagine: 570
Prezzo: € 18,00
Sinossi
Gli Aubrey sono una famiglia fuori dal comune, nella Londra di fine Ottocento. Nelle stanze della loro casa coloniale, fra un dialogo impegnato e una discussione accanita su un pentagramma, in sottofondo riecheggiano continuamente le note di un pianoforte; prima dell’ora del tè accanto al fuoco si fanno le scale e gli arpeggi, e a tavola non si legge, a meno che non sia un pezzo di papà appena pubblicato. Le preoccupazioni finanziarie sono all’ordine del giorno e a scuola i bambini sono sempre i più trasandati; d’altronde, anche la madre Clare, talentuosa pianista, non è mai ordinata e ben vestita come le altre mamme, e il padre Piers, quando non sta scrivendo in maniera febbrile nel suo studio, è impegnato a giocarsi il mobilio all’insaputa di tutti. Eppure, in quelle stanze aleggia un grande spirito, una strana allegria, l’umorismo costante di una famiglia unita, di persone capaci di trasformare il lavaggio dei capelli in un rito festoso e di trascorrere «un Natale particolarmente splendido, anche se noi eravamo particolarmente poveri». È una casa quasi tutta di donne, quella degli Aubrey: la figlia maggiore, Cordelia, tragicamente priva di talento quanto colma di velleità, le due gemelle Mary e Rose, due piccoli prodigi del piano, dotate di uno sguardo sagace più maturo della loro età, e il più giovane, Richard Quin, unico maschio coccolatissimo, che ancora non si sa «quale strumento sarà». E poi c’è l’amatissima cugina Rosamund, che in casa Aubrey trova rifugio. Tra musica, politica, sogni realizzati e sogni infranti, in questo primo volume della trilogia degli Aubrey, nell’arco di un decennio ognuno dei figli inizierà a intraprendere la propria strada, e così faranno, a modo loro, anche i genitori. 



Dire che un essere umano assomigli a un cavallo non è considerato un complimento; ma qualche volta negli occhi di un cavallo di razza risplende una stella, che racconta della sua capacità di correre veloce, del suo spirito indomabile, e quella stessa luce era negli occhi di mio padre.
Gli Aubrey sono una famiglia fuori dal comune, nella Londra di fine Ottocento. Vivono nella casa in cui è cresciuto il capofamiglia Piers Aubrey e le giornate trascorrono fra un dialogo impegnato e una discussione su brani di musica classica mentre, in sottofondo, si sentono le note di un pianoforte. L’ora del tè è sacra e a tavola non si legge, fatta eccezione per i pezzi scritti dal padre. Le preoccupazioni finanziarie sono una costante. A scuola i bambini sono trasandati. La madre Clare, talentuosa pianista, non è mai ben vestita.
Oh, sto diventando vecchia e brutta, ma non è questo. Non posso competere con i debiti e con il disonore, che è ciò che lui ama veramente.
Il padre Piers quando non si dedica ai suoi articoli, è impegnato nel dilapidare somme di denaro al gioco e in affari mai proficui.
Il gioco è peggio dei tarli e della ruggine, non si lascia dietro brandelli di stoffa e metallo arrugginito, si mangia tutto senza lasciare nulla.
Nonostante ciò in casa Aubrey c’è uno stato d’animo gioioso che permea la famiglia povera ma unita. Una famiglia composta quasi tutta da donne.

Cordelia, la figlia maggiore, è priva di talento musicale eppur continua a suonare il violino sognando un futuro da professionista.

Le due gemelle Mary e Rose, prodigi del piano, sono più mature della loro età e non mostrano mai paure derivanti dalla loro precaria situazione economica.

Richard Quin, unico figlio maschio coccolatissimo, non sa ancora “quale strumento suonerà” e nell’attesa cerca di essere di sostegno per l’amata madre.
Eravamo esperte in delusioni, avevamo imparato a essere ciniche rispetto ai nuovi inizi ancora prima di fare noi stesse il nostro debutto, ma questa casa ci dava speranza.
Poi c’è l’adorata cugina Rosamund che in casa Aubrey trova rifugio. Con i componenti della famiglia  conosceremo anche gli amici, gli insegnanti e i domestici che ricoprono un ruolo ben determinato nella storia tra sogni realizzati e sogni infranti, tra certezze e timori, tra povertà materiale e ricchezza di spirito.

“La famiglia Aubrey” è una saga familiare senza tempo, narrata con un linguaggio raffinato e con particolare attenzione per i dettagli riguardo ai costumi sociali dell’epoca. A raccontare la storia degli Aubrey è Rose che ripercorre le sorti dei suoi cari nel trasferimento da Edimburgo a Londra inseguendo il padre avventuriero diviso tra l’ambizione di essere uno scrittore e le fallimentari speculazioni economiche.  Mentre il padre si allontana continuamente da casa, mamma Clare si adopera per mantenere unita la famiglia ed è sempre in angoscia per i creditori. Quando Piers abbandona la famiglia sparendo nel nulla, toccherà a lei far fronte ai debiti. Per fortuna c’è un benefattore, il signor Morpurgo, e Clare ha un asso nella manica che concederà loro un po’ di respiro.

Procedendo con la lettura mi sono resa conto della quiete che regna nel romanzo. È una quiete fatta di quotidianità senza grandi sconvolgimenti. La scrittrice crea un filo diretto con il lettore, un filo intriso di empatia verso la famiglia Aubrey sempre in attesa degli eventi in un presente dilatato nel tempo contrassegnato da qualche episodio drammatico come la scomparsa del padre, qualche fenomeno paranormale (Poltergeist) messo a tacere dall’amore e, udite udite, da un omicidio. Questi avvenimenti non riscuotono un’attenzione particolare da parte della scrittrice poichè intreccio di un disegno più grande come può essere la vita in divenire.

Molte, invece, le bellissime descrizioni che arricchiscono un flusso narrativo che pone attenzione alle azioni dei personaggi descritti in modo impeccabile. Nessuno piega il capo davanti alle difficoltà economiche e ai creditori che numerosi bussano alla porta. La povertà non pone un limite ai loro sogni, ai desideri. Vivono il presente rifugiandosi fra le amate note nutrendosi della musica che seduce e affascina.

Una cosa è chiara: la ricchezza non rende felici e nessuno viene amato per la sua perfezione. La musica è il centro della famiglia e non essere musicalmente dotati (vedi la povera Cordelia) è una catastrofe. Tutti in famiglia parlano con sincerità, non mentono nel timore di far male a una persona amata. Nessuno illude Cordelia proprio perché capire i propri limiti è doveroso per non crearsi false illusioni.

Il titolo originario del romanzo è “The fountain overflows” (La fontana trabocca) e ben descrive il flusso incessante e straripante degli avvenimenti che segnano il trascorrere del tempo in casa Aubrey. Una moltitudine di eventi con un pizzico di horror gotico, un inciso thriller e tanta quotidianità sottolineata dal semplice scorrere del tempo vivendo il presente ma guardando al futuro.

Rebecca West è lo pseudonimo di Ceciy Isabel Fairfield (1892-1983) celebre scrittrice inglese considerata una delle più raffinate prosatrici del Ventesimo secolo. Nel corso della sua vita è attrice di teatro, femminista ante-litteram, socialista, suffragetta. L’amica Virginia Wolf la definisce “un incrocio tra una donna di servizio e una zingara, ma più tenace di un terrier” per il suo carattere indomabile e anticonformista. Nel 1956 con “The Fountain Overflows” inizia una saga familiare che ripercorre cent’anni di storia. Il progetto rimane però incompiuto e solo tre dei quattro romanzi previsti sono stampati: “This Real Night” esce postumo nel 1984 e “Cousin Rosamund” nel 1985, ricostruiti dagli appunti autografi.

Il sipario si è appena alzato sulle vicende degli Aubrey e tutti loro sono già nel mio cuore e non vedo l’ora di assistere al secondo atto. Piers tornerà tra le braccia della sua famiglia? Cosa farà Cordelia ora “che sa” di non aver alcun talento musicale? Clare continuerà a proteggere i suoi amati figli? Rose, Mary, Richard Quin e Rosamund, quale sarà il loro futuro? Non mi resta che aspettare ascoltando un po’ di musica classica. Lasciare casa Aubrey è davvero difficile!

lunedì 2 luglio 2018

RECENSIONE | "Delitto nel campo di girasoli" di Marzia Elisabetta Polacco

In quest’estate capricciosa un buon libro giallo è l’ideale per trascorrere un piacevole pomeriggio tra misteri, indagini e un pizzico di pungente ironia.

Vincitore del concorso Il Mio Esordio, “Delitto nel campo di girasoli. Un caso per il vice commissario Vergari” scritto con penna arguta e fantasiosa da Marzia Elisabetta Polacco, edito Newton Compton, è un giallo che travolge per l’energia della sua giovane protagonista e induce alla riflessione su temi attuali ramificati nella nostra società.

Non aspettatevi il solito giallo! Sicuramente c’è un omicidio, un’indagine e un colpevole ma conoscerete anche un’insolita coppia investigativa (madre e figlia) e tanti personaggi poco perfetti ma tanto umani.

STILE: 8 | STORIA: 7 | COVER: 7
Delitto nel campo di girasoli
Marzia Elisabetta Polacco

Editore: Newton Compton
Pagine: 317
Prezzo: € 9,90
Sinossi
Borghereto, sonnolento paesino dell'Umbria, ha poco da offrire a chi è in cerca di avventura. Così Leyla Prasad, una ragazzina con una passione smodata per il mistero e i libri gialli, passa il tempo scorrazzando in bicicletta per le campagne assolate. Finché una mattina, fra i campi di girasoli, trova il corpo senza vita di una bambina. Leyla si sente improvvisamente catapultata in una delle storie dei suoi libri, tanto più che il caso è affidato proprio a sua madre, il vice commissario di polizia Mirella Vergari. In un primo momento i sospetti sembrano convergere su un anziano del posto, un uomo scontroso e solitario, con pesanti precedenti penali. Il superiore della Vergari, il commissario Pantasileo, in cerca di visibilità, spinge per chiudere rapidamente il caso incriminando il vecchio. Ma la Vergari non è convinta della sua colpevolezza e si ostina a indagare, coinvolgendo negli interrogatori anche altre insospettabili figure del paese. Tutti, a quanto pare, hanno segreti da nascondere. Eppure, alla fine, sarà proprio con l'aiuto della figlia che il commissario Vergari arriverà alla verità...






La domenica d’estate in cui fu ritrovato il cadavere di Beatrice Marra non era diversa da tante altre.
Il ritrovamento del cadavere di una bambina sconvolge la vita di Borghereto, sonnolento paesino umbro. A indagare, il vice commissario di polizia Mirella Vergari. È proprio sua figlia Leyla, una miniatura in gonnella del grande Poirot, a trovare, fra i campi di girasoli, il corpo senza vita di Gemma. La drammaticità dell’omicidio, del dolore, della violenza entra prepotentemente nella vita di Leyla. Le sue amate storie di crimini e investigazioni sono diventate concrete abbandonando le pagine dei libri per approdare nella dura realtà.
Quell’insana fascinazione per la morte era cosa recente: fino a pochi mesi prima, di cadaveri ne aveva incontrati solo sulla carta, nei libri gialli che leggeva. Non le procuravano fastidio né la mettevano a disagio: erano il mezzo necessario per il dispiegarsi dell’enigma. Niente cadavere, niente assassino. Ed era quello che la intrigava: scoprire il colpevole prima di arrivare alla fine. Poteva esserci un morto, un rapimento o anche solo un furto: l’importante era il mistero.
Le prime fasi dell’indagine fanno convergere i sospetti su un anziano del luogo, un uomo scontroso e solitario, detto  lo “Strambo”. Tutti, tranne Mirella, sono convinti della sua colpevolezza. Le prove non convincono il vice commissario che allarga il raggio investigativo, coinvolgendo negli interrogatori anche altre insospettabili figure del paese. Anche negli armadi del pseudo tranquillo paesino si nascondono molti scheletri!

Mirella affronterà un’inchiesta per nulla facile. Dovrà cercare la verità tra i tanti depistaggi cercando di tenere a bada la voglia della figlia di intrufolarsi nelle indagini ma sarà proprio il suo fiuto a fornirle la chiave per arrivare alla soluzione del caso.

“Delitto nel campo di girasoli” è un buon giallo che prende spunto da un orribile crimine per narrare la tranquilla vita di paese che poi così tranquilla non è. Tanti i personaggi, tutti ben caratterizzati, che rappresentano una perfetta cornice all’indagine e mostrano la brace che arde sotto la cenere. L’uragano, per dinamismo e simpatia, è lei, Leyla. È una ragazzina di 12 anni dal carattere tenace, disubbidiente per vocazione e ottimista per natura, determinata e con una passione smodata per i libri gialli ( ha chiamato la sua biciclette Miss Marple).

Con amabile e arguta ironia, la scrittrice scompone il romanzo intrecciando tre fili narrativi che compongono una storia ben articolata. Il crimine segue il suo evolversi naturale con indagine e risoluzione innescando la possibilità di descrivere la quotidianità e i problemi della famiglia di Mirella (un marito un po’ distratto e una madre con il bon ton al posto del sangue). Accattivante la vivida narrazione del comportamento di alcuni arzilli vecchietti che, dandosi ogni giorno appuntamento nella piazza del paese, danno vita al “parlamento” con diffusione e chiacchiere sugli ultimi avvenimenti.

Il tutto è visto attraverso gli occhi di Leyla, catapultata, con l’omicidio, nel mondo degli adulti dove la distinzione fra bene e male non è mai così netta.

Con un registro leggero che rappresenta un valore aggiunto al romanzo, Marzia Elisabetta Polacco affronta temi attuali del mondo giovanile mettendo in luce i pregi e i difetti del piccolo paesino della provincia umbra dove il male si presenta in tutta la sua malvagità. Ciò che emerge è il ritratto di una società di provincia dove i giovani appaiono smarriti ed enigmatici. Gli adulti sono persi dietro i loro problemi e dimenticano il ruolo fondamentale del genitore. Ognuno ha un mistero da celare.

“Delitto nel campo di girasoli” è un esordio più che positivo per l’autrice. Questo libro unisce il giallo a riflessioni sul malessere sociale e sulla distrazione degli adulti.

I girasoli sono, per me, il simbolo del sole e del calore dell’estate così come la famiglia dovrebbe essere luogo di luce, amore e protezione. Tuttavia sento il male sussurrare: “Dovrebbe,dovrebbe!”.