lunedì 11 dicembre 2023

RECENSIONE | "Fiore di roccia" di Ilaria Tuti

“Fiore di roccia” di Ilaria Tuti, edito da Longanesi 2020, è un romanzo storico ambientato nel piccolo paese di Timau della Carnia, nella regione che ora si chiama Friuli Venezia Giulia, durante la prima Guerra Mondiale. L’autrice riporta alla memoria una storia sconosciuta al grande pubblico, quella delle Portatrici carniche: un gruppo di donne friulane che operarono lungo il fronte della Carnia durante la prima Guerra Mondiale. Le portatrici scalavano la montagna per raggiungere il fronte e aiutare gli uomini nelle trincee portando nelle loro gerle cibo, munizioni e medicinali, riportando a valle, molto spesso, i cadaveri dei soldati da seppellire in un piccolo cimitero che loro stesse avevano scavato.

STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 8
Fiore di roccia
Ilaria Tuti

Editore: Longanesi
Pagine: 320
Prezzo: € 18,80
Sinossi

«Quelli che riecheggiano lassù, fra le cime, non sono tuoni. Il fragore delle bombe austriache scuote anche chi è rimasto nei villaggi, mille metri più in basso. Restiamo soltanto noi donne, ed è a noi che il comando militare italiano chiede aiuto: alle nostre schiene, alle nostre gambe, alla nostra conoscenza di quelle vette e dei segreti per risalirle. Dobbiamo andare, altrimenti quei poveri ragazzi moriranno anche di fame. Questa guerra mi ha tolto tutto, lasciandomi solo la paura. Mi ha tolto il tempo di prendermi cura di mio padre malato, il tempo di leggere i libri che riempiono la mia casa. Mi ha tolto il futuro, soffocandomi in un presente di povertà e terrore. Ma lassù hanno bisogno di me, di noi, e noi rispondiamo alla chiamata. Alcune sono ancora bambine, altre già anziane, ma insieme, ogni mattina, corriamo ai magazzini militari a valle. Riempiamo le nostre gerle fino a farle traboccare di viveri, medicinali, munizioni, e ci avviamo lungo gli antichi sentieri della fienagione. Risaliamo per ore, nella neve che arriva fino alle ginocchia, per raggiungere il fronte. Il nemico, con i suoi cecchini – diavoli bianchi, li chiamano – ci tiene sotto tiro. Ma noi cantiamo e preghiamo, mentre ci arrampichiamo con gli  scarpetz ai piedi. Ci aggrappiamo agli speroni con tutte le nostre forze, proprio come fanno le stelle alpine, i «fiori di roccia». Ho visto il coraggio di un capitano costretto a prendere le decisioni più difficili. Ho conosciuto l'eroismo di un medico che, senza sosta, fa quel che può per salvare vite. I soldati ci hanno dato un nome, come se fossimo un vero corpo militare: siamo Portatrici, ma ciò che trasportiamo non è soltanto vita. Dall'inferno del fronte alpino noi scendiamo con le gerle svuotate e le mani strette alle barelle che ospitano i feriti da curare, o i morti che noi stesse dovremo seppellire. Ma oggi ho incontrato il nemico. Per la prima volta, ho visto la guerra attraverso gli occhi di un diavolo bianco. E ora so che niente può più essere come prima.»  Con "Fiore di roccia" Ilaria Tuti celebra il coraggio e la resilienza delle donne, la capacità di abnegazione di contadine umili ma forti nel desiderio di pace e pronte a sacrificarsi per aiutare i militari al fronte durante la Prima guerra mondiale. La Storia si è dimenticata delle Portatrici per molto tempo. Questo romanzo le restituisce per ciò che erano e sono: indimenticabili.



Quelli che riecheggiano lassù, fra le cime, non sono tuoni. Il fragore delle bombe austriache scuote anche i villaggi, mille metri più giù. Restiamo soltanto noi donne, ed è a noi che il comando militare italiano chiede aiuto: alle nostre schiene, alle nostre gambe, alla nostra conoscenza di quelle vette e dei segreti per risalirle. Dobbiamo andare, altrimenti quei poveri ragazzi moriranno anche di fame.

Agata Primus, personaggio di fantasia, è una donna indipendente, orgogliosa, caparbia che non ha mai accettato compromessi. Assiste suo padre malato, lasciata sola dai suoi fratelli Giovanni e Tommaso dopo la morte della madre. Nel paesino vivono anche Francesco Maier, un ricco giovane innamorato di Agata, e il parroco Don Nereo che protegge e aiuta la ragazza. Sarà proprio lui che chiederà ad Agata e alle sue amiche di scalare la montagna su sentieri pericolosi per raggiungere i soldati e  portar loro viveri e munizioni. Così Agata, Viola, Caterina, Lucia e Maria affronteranno ogni giorno il pericolo, la fatica e il dolore, di questi viaggi su sentieri impervi.

Questa guerra mi ha tolto tutto, lasciandomi solo la paura. Mi ha tolto il tempo di prendermi cura di mio padre malato, il tempo di leggere i libri che riempiono la mia casa. Mi ha tolto il futuro, soffocandomi in un presente di povertà e terrore. Ma lassù hanno bisogno di me, di noi, e noi rispondiamo alla chiamata.

Con il passar del tempo Agata si rende utile anche in infermeria aiutando il dottor Janes e il capitano  Colman la considera una donna coraggiosa come un fedele e tenace soldato. Tutte le donne si sentono ormai parte di quell’esercito accampato sulle montagne, tanto che non esiteranno a imbracciare un fucile per combattere e sentirsi vicino a loro.

Ho visto il coraggio di un capitano costretto a prendere le decisioni più difficili. Ho conosciuto l’eroismo di un medico che, senza sosta fa quel che può per salvare vite. I soldati ci hanno dato un nome, come se fossimo un vero corpo militare: siamo Portatrici, ma ciò che trasportiamo non è soltanto vita. Dall’inferno del fronte alpino noi scendiamo con le gerle svuotate e le meni strette alle barelle che ospitano i feriti da curare, o i morti che noi stesse dovremo seppellire.

Il titolo del libro si ispira al nome di una stella alpina che viene chiamata “Fiore di roccia” per la sua tenacia ad aggrapparsi alla montagna e che riflette l’eroismo e il coraggio di tutte quelle donne carniche che si sono sacrificate per aiutare e prendersi cura degli alpini che combattevano alle prime linee italiane. Uomini che cercano parole di conforto, un sorriso in un mondo che ci vede l’uno contro l’altro.

Risaliamo per ore, nella neve fino alle ginocchia, per raggiungere il fronte. I cecchini nemici – diavoli bianchi, li chiamano – ci tengono sotto tiro. Ma noi cantiamo e  preghiamo, mentre saliamo con gli scarpetz ai piedi. Ci aggrappiamo agli speroni con tutte le nostre forze, proprio come fanno le stelle alpine, i “fiori di roccia”.

Agata Primus è un personaggio nato dalla fantasia dell’autrice, ma i fatti narrati sono realmente accaduti. Lei è l’emblema di tutte le donne che hanno combattuto per la libertà, ma che hanno anche provato pietà per i nemici nel nome di quella “fratellanza” che dovrebbe unire e non dividere.

Ma oggi ho incontrato il nemico. Per la prima volta ho visto la guerra attraverso gli occhi di un diavolo bianco. E ora so che niente può più essere come prima.

“Fiore di roccia” dà voce a tutte le donne che si sono sacrificate durante la guerra per aiutare i soldati al fronte. L’oblio sceso sulle Portatrici è stato squarciato dal potere delle parole che ne ha restituito il ricordo a tutti noi. Sono state loro a rispondere al grido d’aiuto dei soldati al fronte e oggi questo bel libro di Ilaria Tuti le consegna all’immortalità. Le Portatrici hanno spalle larghe, non indietreggiano davanti alla fatica e al lavoro. Hanno mani ruvide, abiti lisi e sono forgiate da secoli a sostenere la famiglia nelle condizioni più avverse. Sono donne abituate a lottare, a non fare affidamento sugli uomini, combattono e difendono ciò che amano e per cui vale la pena lottare e morire. Anche loro sono scese in battaglia anche se la Storia le ha dimenticate.

Nel 1997 a Timau, il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ha consegnato alle reduci, ormai novantenni, la medaglia d’oro al valor militare.

“Fiore di roccia” è un romanzo potente che commuove e cattura  per il coraggio e l’umanità delle protagoniste, per le splendide descrizioni dei luoghi, perché parla di guerra ma al tempo stesso di speranza. Mi sono immedesimata con la protagonista Agata Primus, che è la voce narrante del romanzo, provando i suoi stessi sentimenti. Ho ammirato la sua determinazione e forza d’animo, ho riflettuto sulle sue parole sempre attuali anche oggi che la guerra non è un ricordo ma una dolorosa  presenza:

Ho scelto di essere libera. Libera da questa guerra, che altri hanno deciso per me. Libera dalla gabbia di un confine, che non ho tracciato io. Libera da un odio che non mi appartiene e dalla palude del sospetto. Quando tutto attorno a me era morte, io ho scelto la speranza.

L’incomparabile vicenda delle  Portatrici carniche merita di continuare a vivere nella memoria di tutti noi come una straordinaria pagina di Storia.

 Nell’inverno della vita, sacra è la presenza che si prende cura della dignità umana.

martedì 21 novembre 2023

RECENSIONE | "La voce del buio" di Gigi Paoli

“La voce del buio” di Gigi Paoli, Giunti Editore, è un giallo che vede protagonista maschile, Piero Montecchi, professore di Neuroscienze forensi all’Università di Verona, specializzato in fenomeni paranormali. Le vicende si svolgono intorno a una casa di riposo, in cui ogni due anni e da dodici anni scompaiono diversi anziani, come se venissero risucchiati dal buio del bosco. Scompaiono tutti nello stesso posto. Nello stesso modo. Senza alcun movente e senza una spiegazione plausibile. Tutto sembra essere collegato a strane voci e inquietanti presenze, e sarà proprio Piero a dare una spiegazione logica a quegli avvenimenti. Un noir per chi subisce il fascino del paranormale.


STILE: 7 | STORIA: 8 | COVER: 7
La voce del buio
Gigi Paoli

Editore: Giunti
Pagine: 304
Prezzo: € 16,90
Sinossi

Da dodici anni alcuni anziani scompaiono di notte, senza lasciare traccia, tutti nello stesso modo: escono da Villa Imperiale, la sfarzosa casa di riposo sul Passo della Mendola dove sono ospiti, abbandonano i propri indumenti ai margini del bosco e si inoltrano nel buio richiamati da una voce… o almeno così riferiscono alle autorità gli amici e i parenti dei dispersi. Ogni due anni puntualmente la storia si ripete, senza che gli inquirenti riescano a venirne a capo. Mentre in paese si mormora che lassù c'è qualcosa di sovrannaturale per il susseguirsi di eventi inspiegabili, a far luce sul caso viene chiamato il professor Piero Montecchi. Fascinoso, ironico, innamorato della scienza e di una moglie perduta, Montecchi è docente di Neuroscienze forensi all'Università di Verona e membro del CICAP, l'ente che controlla le affermazioni sul paranormale. Tra foreste silenziose, presenze inquietanti e un antico fatto di sangue che ha sconvolto per sempre il villaggio, lo scettico professore dovrà sciogliere i nodi di una vicenda che sembra trascendere i limiti della razionalità. Perché nessuno meglio di lui sa che l'enigma più contorto non è l'occulto, bensì la mente umana. Un mistero impossibile, macchiato dall'ombra di presenze oscure.





L’anziana sorrise. Si sfilò le pantofole e si tolse la vestaglia di flanella, cercando di piegarla con attenzione prima di gettarla per terra. Poi fece lo stesso con gli occhiali. Si passò la mano fra i capelli, un vezzo istintivo della bella donna che era stata, e sorrise a sé e al buio.

Ora poteva andare.

Entrò dentro il bosco.

E nessuno la vide mai più.

Né viva, né morta.

Da dodici anni alcuni anziani scompaiono di notte, senza lasciare traccia, tutti nello stesso modo: escono da Villa Imperiale, la sfarzosa casa di riposo sul Passo della Mendola dove sono ospiti, abbandonano i propri indumenti ai margini del bosco e si inoltrano nel buio richiamati da una voce, o almeno così riferiscono alle autorità gli amici e i parenti dei dispersi. Ogni due anni puntualmente la storia si ripete, senza che gli inquirenti riescano a venirne a capo. Mentre in paese si mormora che lassù c’è qualcosa di sovrannaturale   per il susseguirsi di eventi inspiegabili, viene chiamato il professor Piero Montecchi. Fascinoso, ironico, innamorato della scienza e di una moglie perduta, Montecchi è docente di Neuroscienze forensi all’Università di Verona e membro del CICAP, l’ente che controlla le affermazioni sul paranormale.

Tra foreste silenziose, presenze inquietanti e un antico fatto di sangue che ha sconvolto per sempre il villaggio, lo scettico professore dovrà sciogliere i nodi di una vicenda che sembra trascendere i limiti della razionalità. Perché nessuno meglio di lui sa che l’enigma più contorto non è l’occulto, bensì la mente umana.

Ho letto “Le voci del buio” con una gran voglia di scoprire il mistero celato nel buio dove si nascondono presenze oscure. Ho provato a immaginare la voce del buio che attira a sé le persone anziane e ho percepito brividi lungo la schiena pensando alla Voce che sceglie le sue vittime tra persone fragili. Il paranormale lo sappiamo, non esiste e il professor Montecchi è pronto a smantellare ogni tentativo di opposizione. Eppure, non sempre la ragione ha una spiegazione per ogni cosa. Forse perché la verità, a volte, è difficile da vedere e da accettare.

Il protagonista del romanzo è il professor Piero Montecchi, fascinoso e ironico vedovo cinquantenne ancora perdutamente innamorato di sua moglie Cinzia. È un uomo elegante, fuma le gauloises blu. A far compagnia al professore c’è Winston, tenero pastore tedesco, dono della moglie.

La sua vita si svolge tra la casa  veronese che affaccia sul cortile interno di via Cappello (situata nel cuore del centro storico dove si trova il famoso balcone di Giulietta, ulteriore riferimento all’amore tragico dei due giovani, oltre al nome Montecchi) e Saint Paul de Vance, un piccolo borgo medievale nel sud della Francia dove Cinzia aveva acquistato un appartamento, il loro nido d’amore prima della grande tragedia. Dopo la morte dell’amata moglie, il professore adotta la solitudine per proteggersi dal dolore perché non aveva mai accettato la morte della donna amata e non voleva condividere il suo dolore con nessuno.

Nel passato il nostro professore era carabiniere paracadutista in forza alla Tuscania. Fu ferito gravemente durante una missione a Mogadiscio, in Somalia, riportando danni permanenti come un forte mal di testa che non lo lascia mai.

Sarà proprio Montecchi ad essere chiamato per risolvere le sparizioni inspiegabili alla casa di riposo. L’uomo di scienza è chiamato a dare una risposta a qualcosa che appare lontano anni luce dalla scienza. Avrà l’appoggio del maresciallo Galasso, ormai in pensione, ma sempre pronto a ergersi paladino della verità. Nel paese tutti hanno paura del bosco e cercano una protezione contro il male. Ovunque, nei luoghi pubblici, nelle case e anche nelle camere d’albergo, il crocifisso fa da scudo alla paura. Il professore, inizialmente, disapprova.

Il male non è un’entità astratta, a meno che  non si voglia pensare a Lucifero o all’Inferno di Dante. Il male, lo diceva la sua Scienza, è frutto di qualcosa di tangibile, di scientifico.

Patrimonio genetico, fattori naturali e culturali, possono influenzare i nostri comportamenti al di fuori della coscienza, quindi niente paranormale, “si tratta di Scienza, non chiacchiere, né sogni.” Forse. Tra le frasi attribuite al geniale scienziato Albert Einstein, una si adatta perfettamente a questa storia:

Dio non gioca a dadi col mondo. Tutto è determinato, dall’inizio alla fine, da forze su cui non abbiamo controllo. Danziamo tutti su una melodia misteriosa, intonata a distanza da un musicista invisibile.

Man mano che si procede con la lettura si entra in un incubo sempre più oscuro che ritorna ciclicamente e non dà scampo. Capitolo dopo capitolo gli interrogativi aumentano, le certezze vacillano e i dubbi sono direttamente proporzionali ai misteri.

Mi è piaciuta l’ambientazione in un luogo incantevole della nostra bella Italia e ho trovato interessanti i riferimenti alle Neuroscienze, materia attuale e complessa che studia, anche, le capacità del cervello che ancora non conosciamo del tutto. Alcuni neuroscienziati fanno parte del CICAP, per la confutazione delle affermazioni sul paranormale. L’accoppiata neuroscienze e paranormale sarà fonte di molti intriganti eventi anche perché Montecchi ha una mente aperta al dubbio.

Se vuoi nascondere davvero qualcosa, mettila sotto gli occhi di tutti e nessuno la vedrà mai.

Gigi Paoli, scrittore e giornalista, è già noto al grande pubblico dei lettori per la serie, ambientata nella bellissima città di Firenze, che vede protagonista il tenace, ironico e instancabile, cronista di giudiziaria Carlo Alberto Marchi. Con “La voce del buio” l’autore si cimenta con un nuovo personaggio, una nuova ambientazione, una nuova storia.

“La voce del buio” è un romanzo camaleontico, un po’ thriller e horror, un po’ paranormale e noir. È un romanzo carico di suggestioni, di voci e di nodi da sciogliere.

Vi invito quindi a una lettura intrigante con atmosfere inquietanti e tanta suspense. Una vicenda al limite della razionalità. Una storia che profuma di ciclamino, la pianta sacra a Ecate che era la divinità greca dell’oltretomba e della magia. La potente signora dell’oscurità che regnava sui demoni malvagi, sulla notte, sui fantasmi e sui morti, vi dà appuntamento al limitar del bosco.

giovedì 9 novembre 2023

RECENSIONE | "Le persiane verdi" di Georges Simenon

“Le persiane verdi” (Adelphi) è tra i romanzi più belli del grande e amato scrittore del Novecento, il belga Georges Simenon. Emile Maugin è un celeberrimo attore teatrale e cinematografico, noto per la sua vita di eccessi e per il carattere dispotico con cui tiranneggia chi gli è accanto. Ma solo lui sa che il suo cuore malato gli lascia poco da vivere. E ha un sogno che, prima di andarsene, vuole a tutti i costi realizzare.

STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 7
Le persiane verdi
Georges Simenon

Editore: Adelphi
Pagine: 208
Prezzo: € 19,00
Sinossi

«Forse questo è il libro che i critici mi chiedono da tanto tempo e che ho sempre sperato di scrivere» azzarda Simenon, che ha terminato "Le persiane verdi" in una sorta di stato di grazia, all'indomani della nascita del secondo figlio. Ha tutte le ragioni di essere soddisfatto: è riuscito a scolpire una figura larger than life, Emile Maugin, celeberrimo attore giunto, a sessant'anni, all'apice del successo e della fama, che un giorno apprende di avere, al posto del ventricolo sinistro, «una specie di pera molle e avvizzita». «Maugin non è ispirato né a Raimu, né a Michel Simon, né a W.C. Fields, né a Charlie Chaplin» afferma risolutamente Simenon nell'Avvertenza. «E tuttavia, proprio a causa della loro grandezza, non è possibile creare un personaggio dello stesso calibro, che faccia lo stesso mestiere, senza prendere in prestito dall'uno o dall'altro certi tratti o certi tic». Ciò detto, taglia corto, «Maugin non è né il tale né il talaltro. È Maugin, punto e basta, ha pregi e difetti che appartengono solo a lui». Pregi e difetti alla misura del personaggio: dopo un'infanzia sordida, ha lottato, perduto, vinto, amato, desiderato, conquistato e posseduto tutto - donne, fama, denaro -, e coltiva la propria leggenda abbandonandosi a ogni eccesso. Prepotente, scorbutico, cinico (ma segretamente generoso), regna da tiranno su un piccolo mondo di sudditi devoti e trepidanti, fra cui la giovanissima e amorevole moglie, ma vive nella costante paura della morte e nella nostalgia dell'unica cosa che non ha mai conosciuto: la pace dell'anima - quella cosa tiepida e dolce a cui il suo desiderio attribuisce la forma di una casa con le persiane verdi.



Bevve il terzo bicchiere a occhi chiusi. Poi ne bevve un quarto e solo allora si eresse in tutta la sua altezza, spinse il petto in fuori, gonfiò le guance e tornò a essere quello che tutti erano abituati a vedere. Si guardò intorno, osservando le facce che fluttuavano tra le nuvole di fumo, e contrasse le labbra in una smorfia, la sua famosa smorfia, feroce e patetica insieme, che alla fine produsse l’effetto desiderato, li fece ridere, come a teatro faceva ridere la platea, il tipico riso nervoso di chi per un attimo ha avuto paura.

Protagonista del romanzo è il grande Emile Maugin, celeberrimo attore giunto a sessant’anni, all’apice del successo e della fama, che un giorno apprende di avere, al posto del ventricolo sinistro, “una specie di pera molle e avvizzita”. È il dottor Biguet, eminente specialista, a fare diagnosi senza appello:

Maugin, lei mi ha detto poco fa che ha cinquantanove anni. Ma il cuore che avevo davanti era quello di un settantacinquenne.

Maugin racchiude in sé pregi e difetti. Dopo un’infanzia sordida, ha lottato, perduto, vinto, amato, desiderato, conquistato e posseduto tutto. Ha donne, fama e denaro. Coltiva la propria leggenda abbandonandosi a ogni eccesso: è prepotente, scorbutico e cinico, avaro in pubblico ma segretamente generoso. È il tiranno della sua corte formata da sudditi che lo amano e lo temono, fra cui la giovanissima e amorevole moglie Alice che non gli aveva fatto mai alcun rimprovero e che lui aveva sposato anche se la donna era incinta di un altro uomo.

Lei non gli aveva fatto nessun rimprovero. Ma erano proprio quei rimproveri non formulati che lo mandavano in bestia.

Maugin vive però avendo costantemente paura della morte anelando l’unica cosa che non ha mai avuto: la pace dell’anima, quella cosa tiepida e dolce a cui il suo desiderio attribuisce la forma di una casa con le persiane verdi.

La figura di Maugin, come lo stesso autore tiene a precisare, non si ispira a nessun altro attore realmente vissuto. Maugin è Maugin, punto e basta. Tutti lo amano e ammirano, lui cerca una pace interiore che non è mai riuscito a raggiungere. Un’infanzia di estrema povertà, senza nessun affetto e valori, ha segnato la sua vita affollata da demoni. Il suo rifugio è l’alcol, rigorosamente cognac e vino rosso, che scaccia la malinconia ma è un rifugio temporale, alla fine l’inevitabile si presenterà. Se vuol continuare a vivere Maugin dovrà rinunciare alla vita frenetica e agli eccessi. Ma come può il grande attore rinunciare al suo modo di presentarsi agli altri? Come può rinunciare al bere, alle donne (amate e perdute), al sesso e alla vita frenetica delle prove a teatro? Non può ma deve. Inizia a percepire l’assedio della stanchezza:

Sono stanco. Stan-co, capite? Stanco da morire. Stanco di essere un uomo. Stanco di reggersi in piedi. Stanco di vedere e sentire individui come Cadot, e di doversene per giunta fare carico. Avevano remore, loro, a tormentarlo? Qualcuno aveva mai avuto pietà di lui? Lo avevano mai visto andare a chiedere educatamente aiuto a checchessia?

È affascinante leggere Simenon e “Le persiane verdi” si rivela un ulteriore romanzo in cui l’autore esegue un’autopsia accurata sul corpo del genere umano. È l’analisi di un uomo solo che si sente prossimo alla morte e sogna di essere l’imputato di un processo i cui giudici sono persone a lui note. Cerca l’assoluzione per le sue colpe Maugin, la pace dell’anima simboleggiata da una casetta con le persiane verdi. Ma indietro non si può tornare ed è impossibile sfuggire al destino di cui lui è l’artefice. C’è tanta infelicità tra le pagine di questo romanzo e si percepisce la solitudine del protagonista anche se intorno a lui ci sono tante persone.

Era strano: il buio che lo circondava non era il buio immobile, immateriale, negativo, a cui siamo abituati. Gli ricordava piuttosto il buio quasi palpabile di certi incubi della sua infanzia, un buio minaccioso, che a volte di notte lo assaliva a ondate come a volerlo soffocare.

“Le persiane verdi” è un romanzo intenso alla ricerca delle stratificazioni psicologiche che danno spessore al protagonista, il grande Maugin, che si condanna e autoassolve, si odia e si ama, si consola con l’alcol per sentirsi meglio e dimenticare i cattivi pensieri. Con brevi frammenti di memoria, l’autore svela la vita movimentata dell’attore che decide, alla fine, di cercare la pace lasciando Parigi e stabilendosi con la sua famiglia ad Antibes in una grande villa. Ancora una fuga, ancora un cambiamento che nulla risolve: Maugin si sente inutile, beve sempre più. Un giorno, durante un uscita in barca per pescare, si ferisce con un amo al piede. Quella piccola, insignificante ferita, sarà l’inizio della fine.

Un lungo flusso di coscienza porta Maugin a riflettere sulla sua cronica infelicità ma non troverà risposte precise. 

“Le persiane verdi” è un romanzo in cui le incertezze vanno a braccetto con i fantasmi di una vita. Il protagonista abbraccia in sé tutti coloro che hanno faticato per ottenere successo e spesso sono costretti a “recitare” anche nella quotidianità. Il porto sicuro è una casetta dalle persiani verdi ma arrivarci è impossibile anche se a volerlo è il grande Maugin, vittorioso sul palcoscenico ma fallimentare nella vita.

Ancora una volta Georges Simenon ha scritto un gran romanzo in cui c’è la ricerca del senso della vita tra sentimenti e passioni che vivono nei pensieri e diventano evanescenti nei fatti. Il protagonista vive dentro la tempesta della sua vita come in una voragine in cui l’anima perde la retta via.

“Le persiane verdi” è una “zona franca” in cui ognuno dice la sua senza dare spettacolo e gli eventi vanno in varie direzioni ma è Maugin a dar vita a uno straordinario contesto di riflessione. È la sua voce a prevalere su tutti. Ma è una voce interiore che medita sui misteri dell’esistenza e della dignità delle persone. È una voce alla ricerca di ciò che le viene negato, la serenità e l’equilibrio interiore. Se lui non fosse il grande Maugin, qualcuno lo cercherebbe ugualmente? Possono l’amore, il calore di una famiglia, l’amicizia mostrare veramente i loro volti o tutto è finzione come a teatro? L’interesse muove cielo e mare, guida le azioni degli uomini e si traveste da fragilità sociale. Il passato e il presente dialogano tra loro creando un vortice che si immerge nell’interiorità del protagonista. Del futuro non c’è certezza e questo Maugin lo sa perfettamente e malinconicamente percorre la via del crepuscolo in compagnia del suo “ventricolo sinistro paragonato a una specie di pera molle e avvizzita”, sognando quella casa dalle persiane verdi che anela da una vita.

venerdì 3 novembre 2023

BLOGTOUR | "Vertigine" di Franck Thilliez | I 5 motivi per leggere il romanzo

Novembre sarà sicuramente un mese ricco di uscite editoriali in libreria. Tra i più graditi e attesi ritorni vi segnalo in uscita il 7 novembre “Vertigine” (Fazi nella collana Darkside) del maestro del thriller francese Franck Thilliez. Il romanzo è una crudele quanto affascinante dissezione dell’animo umano messo davanti al pericolo. Un enigma intricato con un’ambientazione da brivido.

Franck Thilliez continua a giocare e manipolare, ma questo noi lettori affezionati già lo sappiamo. Per chi non dovesse conoscere il maestro del rompicapo letterario, sarò ben lieta di elencare cinque motivi per leggere “Vertigine”.



Vertigine
Franck Thilliez

Editore: Fazi
Pagine: 312
Prezzo: € 19,00
Sinossi
Jonathan Touvier, ex alpinista cinquantenne, si risveglia intontito e non sa dove si trova. Attorno a lui soltanto buio, umidità, freddo. È finito in fondo a una grotta e non ha idea di come sia successo. Non è solo. Insieme a lui ci sono il suo fedele cane Pokhara e due sconosciuti: Farid, giovane di origini maghrebine, e Michel, uomo di mezza età che lavora in un macello. Jonathan è incatenato al polso, Farid alla caviglia; Michel è libero, ma la sua testa è coperta da una spaventosa maschera di ferro, che esploderà se si allontana dagli altri due. Sulla schiena hanno tre biglietti con altrettante domande: «Chi sarà il ladro?», «Chi sarà il bugiardo?», «Chi sarà l’omicida?». Qualcuno sta giocando con loro, e ha tessuto con cura una ragnatela inestricabile per intrappolarli. Chi è? E perché l’ha fatto? Ben presto, però, la domanda più urgente diventerà un’altra: fino a che punto si può arrivare per non soccombere in una situazione così estrema? Se la natura può rivelarsi un’assassina spietata, l’uomo può trasformarsi in un predatore senza scrupoli: tra menzogne e mezze verità, scatta una disperata lotta per la sopravvivenza, da affrontare con ogni mezzo e strategia possibile.



I 5 motivi per leggere il romanzo

Siamo scossi da un vento di sconfitta e mi rendo conto che, martoriato dalla fame, sono diventato come loro: un predatore pronto a tutto. Ho sentito, vivido e pressante, l’istinto della caccia.

1. Perchè la trama è già una trappola per i lettori, leggendola non potrete non voler leggere questo nuovo geniale enigma firmato Franck Thilliez. 

Jonathan Touvier, ex alpinista cinquantenne, si risveglia intontito e non sa dove si trova. Attorno a lui solo buio, umidità e freddo. È finito in fondo a una grotta e non ha idea di come sia successo. Con lui ci sono il suo fedele cane Pokhara e due sconosciuti: Farid, giovane di origini maghrebine, e Michel, uomo di mezza età che lavora in un macello. Jonathan è incatenato al polso, Farid alla caviglia; Michel è libero, ma la sua testa è coperta da una spaventosa maschera di ferro che esploderà se si allontana dagli altri due. Sulla schiena hanno ognuno un pezzetto di stoffa bianca su cui sono vergate tre domande: “Chi sarà il ladro?”, “Chi sarà il bugiardo?”, “Chi sarà l’omicida?”. 

Chi li ha portati lì? E perché l’ha fatto? Qualcuno ha tessuto con cura una ragnatela inestricabile per intrappolarli, ma la domanda più urgente diventerà un’altra: fino a che punto si può arrivare per non soccombere in una situazione così estrema? 

Eccovi dunque uniti nella cattiva sorte. Nessuno sa di voi, a parte me, ma dubito di potervi essere di qualche aiuto, da dove sono ora. E credetemi, non vi troveranno mai. Vi sia ben chiara una cosa: morirete tutti. Il punto è scoprire quanto a lungo riuscirete a resistere e perché.

2. Perchè se la natura può rivelarsi un’assassina spietata, l’uomo può trasformarsi in un predatore senza scrupoli. I protagonisti, tra menzogne e verità, affronteranno una dura lotta per la sopravvivenza mettendo in atto ogni strategia possibile. Allora conosciamoli meglio questi tre uomini compagni di sventura. 

Jonathan Touvier da giovane ha scalato un bel po’ di montagne. Sua moglie Francoise è malata di leucemia e solo un trapianto di midollo potrebbe salvarle la vita. 

Michel Marquis è un uomo imponente. Per vivere macella i maiali. 

Farid Houmad, vent’anni, non ha moglie né figli. Il suo passato è avvolto nel mistero. 

Tre personaggi, tre forti personalità, tre antagonisti, dovranno comprendere che solo l’unione può dar loro, forse, una possibilità di salvezza. Con loro io ho provato subito una gran empatia nutrita dalla sofferenza fisica e morale, dai segreti che verranno pian piano svelati. 

3. Perchè leggere Thilliez è come entrare in un labirinto precipitando in un vortice di suspense. È davvero intrigante il modo in cui l’autore crea il mondo oscuro dei suoi thriller. Mondo in cui le perversioni umane sono liberate da qualsiasi catena e i personaggi hanno personalità scomposte in mille pezzi che si riflettono e si moltiplicano nella narrazione. “Vertigine” è una “guida alla sopravvivenza” in territorio ostile. Tutti sono assediati da paure primordiali e danno vita a un clima perverso di cui solo lo scrittore possiede la chiave. Thilliez gioca, come sempre, con i suoi lettori conducendoli in una storia machiavellica e soffocante. Nell’abisso ghiacciato il lato oscuro dei personaggi viene alla luce e preparatevi a leggere di eventi cruenti, scelte dolorose ma necessarie. 

La sopravvivenza abbatte le barriere della coscienza. Tutto quello che credevamo sepolto, rimosso, riemerge in quel momento con, alle volte, una violenza decuplicata.

4. Perchè “Vertigine” è un thriller implacabile, cupo, che vi porterà a immedesimarvi con i vari personaggi o a eleggere il vostro preferito in un contesto di grandi emozioni. Fate attenzione a chi eleggerete come vostro protetto perché i tre uomini sicuramente non sono agnellini. 

Forse inizialmente i tre prigionieri e il cane, anche il fido animale avrà un ruolo decisivo nella storia, penseranno di unire le forze per collaborare e sostenersi a vicenda cercando un modo per ritrovare la libertà. In loro c’è speranza. 

Nella grotta di ghiaccio in cui sono reclusi troveranno dei “doni”. La speranza ancora vive. 

Poi subentra la fame, il freddo trafigge i loro corpi, a tratti la ragione si spegne, i dubbi aumentano. La speranza inizia a inclinarsi. 

Le forze diminuiscono, il trascorrere del tempo svanisce sostituito dal ritmo interno e ancestrale dell’uomo, gli istinti prendono il posto della ragione e ognuno sospetta dell’altro. La speranza non c’è più. 

La carne sopravvive alla carne. La vita alla vita.

5. Perchè Thilliez è un maestro nel conquistare l’attenzione dei lettori e lo fa anche tramite un semplice elenco di “doni” che i tre uomini trovano nella grotta. 

Due paia di guanti, due sacchi a pelo e due paia di calzettoni, ma loro sono in tre. 

Due arance, un vecchio giradischi e due bottiglie di Vodka. 

Una pentola, due piatti e due forchette di plastica, un accendino, un fornello e alcune bombole di propano. Ma non c’è cibo da cucinare. 

Un forziere di metallo chiuso con una combinazione a sei cifre. Cosa contiene? 

Una macchina fotografica e una pistola con un proiettile. 

Tanti oggetti per aiutarli a sopravvivere, ma sarà proprio così? 

Se posso permettermi un consiglio, prestate molta attenzione ai dettagli perché ogni cosa ha un significato in questo viaggio che ben presto richiederà un impegno psichico eccezionale. Vi sembrerà di udire il rumore delle unghie della follia che graffiano le pareti della ragione. 

Quindi se come me amate i luoghi ostili e indicibili segreti, un’atmosfera inquietante e uomini incatenati messi a dura prova, maschere pronte a esplodere e lotta per la sopravvivenza, allora “Vertigine” è il romanzo che fa per voi.



giovedì 2 novembre 2023

RECENSIONE | "La taverna degli assassini" di Marcello Simoni [Review Party]

Marcello Simoni torna in libreria con “La taverna degli assassini”(Newton Compton), un’indagine di Vitale Federici. Dotato di arguzia e di un formidabile spirito di osservazione, Vitale Federici vive incredibili avventure nell’Italia del Settecento. 

Le storie narrate da Marcello Simoni mi affascinano e coinvolgono nell’eterna sfida tra criminali ed eroi. Il fascino dell’avventura è un seme sempre pronto a germogliare nei thriller storici di Simoni.

STILE: 7 | STORIA: 7 | COVER: 7
La taverna degli assassini
Macello Simoni

Editore: Newton Compton
Pagine: 224
Prezzo: € 9,90
Sinossi

Anno del Signore 1793. Granducato di Toscana. Un castello fondato su un’antica abbazia, un cadavere avvolto nei tralci di una grande vite. Sotto le luci di un’alba invernale, i vitigni innevati del barone Calendimarca si rivelano teatro di un omicidio. Non solo un enigma inspiegabile, ma anche un’onta per il casato del nobiluomo. Vitale Federici, insieme al suo devoto discepolo Bernardo della Vipera, si ritroverà a investigare su un delitto i cui moventi sembrano affondare nell’antica tradizione vinicola della famiglia baronale, e nella sua cantina sotterranea che, simile a una biblioteca, pare celare un indizio sull’identità dell’assassino. Riuscirà Vitale a fare luce su questo caso, in cui ambizione, inganno e antiche passioni si intrecciano in un mistero forse impossibile da decifrare?



“La taverna degli assassini” è un romanzo ambientato nel Natale del 1793. Colli Fiorentini. Un castello fondato su un’antica abbazia, un cadavere avvolto nei tralci di una grande vite. Sotto le luci di un’alba invernale, i vitigni innevati del barone Calendimarca si rivelano teatro di un omicidio. Non solo un enigma inspiegabile, ma anche un’onta per il casato del nobiluomo. Vitale Federici, insieme al suo devoto discepolo Bernardo della Vipera, si ritroverà a investigare su un delitto i cui moventi sembrano affondare nell’antica tradizione vinicola della famiglia baronale, e nella sua cantina sotterranea che, simile a una biblioteca, pare celare un indizio sull’identità dell’assassino. Riuscirà Vitale a fare luce su questo caso, in cui ambizione, inganno e antiche passioni si intrecciano in un mistero forse impossibile da decifrare? 

La storia ruota intorno alla figura di Vitale Federici, giovane uomo dalla personalità particolare che ama risolvere enigmi basandosi sulle sue abilità deduttive. Siamo nel Granducato di Toscana e l’eco della Rivoluzione francese è giunta anche al castello del barone Leonberto Calendimarca. In Francia sono migliaia gli aristocratici ghigliottinati, anche il re Luigi XVI e sua moglie Maria Antonietta sono stati uccisi. In tempi così cruenti, nel castello Calendimarca avviene uno strano delitto. 

Simoni inquieta e affascina con un breve romanzo giallo immerso nella storia e sfumato di politica, in cui realtà e fantasia si mescolano in una trama nascosta. I capitoli brevi sono arricchiti con illustrazioni realizzate dallo stesso autore che conferiscono alla storia il sapore del mistero e dell’avventura. 

In questo nuovo capitolo delle indagini di Vitale Federici, non ci si annoia sicuramente. Camminando un passo indietro a Federici potremo vivere l’evoluzione di un’indagine intricata connessa all’antica tradizione di produzione del vino e a una cantina misteriosa. È stato intrigante scoprire i segreti del castello, segreti che sembrano non finire mai. Per aggiungere un pizzico di romanticismo vedremo Federici che, nel castello, si ritroverà faccia a faccia con una vecchia fiamma, una passione che credeva sopita da tempo. E non finisce mica qui. Per rendere tutto più intricato conosceremo una serie di personaggi che affollano le pagine di questo libro, come madonna Augusta Cornelia, moglie del barone Calendimarca. Donna affascinata dal gotico “non fa altro che parlare di castelli diroccati e di cimiteri infestati dagli spiriti.” È una donna altezzosa, sempre ingioiellata ed elegante con vertiginose parrucche. 

Faremo poi la conoscenza del physicus di corte, Morieno Santacroce. Uomo misterioso dal volto deturpato da chiazze grigio-bluastre, vive relegato nella torre del castello con i suoi libri e i suoi alambicchi. 

Non di secondaria importanza è il personale al servizio del barone: la governante Gertrude, “torva e taciturna, dal comportamento marziale”; Lucrezia, la bella bambinaia; Jacopo, il mastro bottigliere. 

Tutti hanno qualcosa da nascondere, si coprono a vicenda e conoscono i segreti del castello. A completare il quadro dei personaggi misteriosi, a un certo punto della storia compaiono uomini in tricorno e mantello oscuro che si riuniscono nella taverna poco lontana dal castello. 

“La taverna degli assassini” è un romanzo che cattura e coinvolge. La trama è arricchita da dettagliate ricostruzioni storiche e avventure appassionanti che rendono il romanzo una lettura godibile. Non sarà facile scoprire la verità. 

Un’indagine è del tutto e per tutto simile a una via crucis. Si compone di tappe. Un insieme di soste, fermate e intoppi che si susseguono fino al raggiungimento del traguardo.

Federici, fin dalle prime battute, mi ha ricordato il leggendario investigatore Sherlock Holmes così geniale e accattivante. Questo non è il primo libro di Simoni che leggo, in tutti i suoi lavori l’autore fonde magistralmente storia, mistero e avventura. Aprire un suo libro è come affacciarsi alla finestra del tempo guardando un paesaggio che assicura l’adrenalina del giallo e l’emozione della storia. Con Simoni si attraversano passaggi segreti, si attraversano cunicoli, si salgono impervi gradini per giungere alle torri del castelli. L’avventura è assicurata. 

Una piacevolissima sorpresa è stata la nuova veste grafica scelta per il libro. La copertina è davvero intrigante con i simboli araldici preludio di un romanzo ricco di fascino. Un fascino che trasfigura, una verità che non è una cosa bella. Forse la realtà non è sempre un bel dono. Alcune volte è meglio rimanere dentro la grotta di Platone a scrutare le ombre. A volte le ombre sono meglio della realtà. A voi l’ardua riflessione.



martedì 31 ottobre 2023

RECENSIONE | "A Roma si muore da soli" di Enrica Aragona [BookTour]

“A Roma si muore da soli” è il primo romanzo di Enrica Aragona pubblicato con la Newton Compton Editori. Un efferato omicidio scuote Roma sotto Natale, la commissaria Nadia Montecorvo dovrà affrontare un’indagine  che la porterà a fare i conti con il proprio passato.

STILE: 7 | STORIA: 7 | COVER: 7
A Roma si muore da soli
Enrica Aragona

Editore: Newton Compton
Pagine: 288
Prezzo: € 12,00
Sinossi

Mancano pochi giorni a Natale, e la commissaria Nadia Montecorvo sta indagando su un caso molto delicato: davanti a una scuola elementare di Roma sono stati esplosi diversi colpi di pistola. A perdere la vita è una giovane donna, Emilia Colantonio; mentre Carlotta Lenzi, una bambina che stava andando a scuola insieme a suo padre, è rimasta gravemente ferita. Le indagini si concentrano subito sul passato di Emilia: l’assassino aveva un movente personale o la follia omicida si è scatenata a seguito di un diverbio per motivi di lavoro? Determinata a non escludere nessuna ipotesi, Nadia comincia a interrogare diversi sospettati. Ma dopo una visita in ospedale per sincerarsi delle condizioni della piccola Carlotta, i ricordi personali cominciano a sovrapporsi all’indagine in corso. In un caso in cui è vitale mantenere la lucidità e il sangue freddo, la commissaria Montecorvo dovrà riuscire a tenere a bada i suoi demoni interiori per trovare al più presto il colpevole.



Le mani erano tenaglie, aggrappate con forza al lenzuolo. Respira. 

La trachea era un budello dove la sopravvivenza passava a stento e colava lenta nei polmoni, goccia dopo goccia. Non è niente. Puoi farcela. 

Il sudore era benzina che bagnava il cuscino, appiccicava le ciglia. È tornato. Devi combattere. 

Il mostro. Lo sentiva. Lo sentiva scivolare tra i muscoli e le vene, pronto ad avvinghiarla in un abbraccio melmoso. Pronto a trascinarla giù nella palude.

Un killer terrorizza la Capitale. Mancano pochi giorni a Natale e la commissaria Nadia Montecorvo sta indagando su un caso molto delicato: una giovane donna è stata uccisa davanti a una scuola elementare. Carlotta, una bambina che stava andando a scuola accompagnata dal padre, è rimasta gravemente ferita. Nadia e la sua squadra raccolgono testimonianze, controllano alibi e iniziano a formulare delle ipotesi. Ma dopo una visita in ospedale, per sincerarsi delle condizioni della piccola Carlotta, i ricordi personali di Nadia iniziano a sovrapporsi all’indagine in corso. In un caso in cui è vitale mantenere la lucidità e il sangue freddo, la commissaria Montecorvo dovrà riuscire a tenere a bada i suoi demoni interiori per trovare al più presto il colpevole. 

Leggere “A Roma si muore da soli” è stata una piacevole sorpresa, un thriller nostrano con protagonisti che si muovono in una realtà ricca di luci e ombre. La Città Eterna mostra, nel romanzo, le sue bellezze ma anche le fragilità della periferia fatta di degrado e violenza, dove si vive sulla propria pelle la quotidiana sensazione di sentirsi soli, abbandonati da tutti. 

I sogni svaniscono e la realtà contamina ogni scelta, allontana le persone e i rapporti si sgretolano anche quando si cerca di cambiar vita, di migliorare. 

Roma è la città madre che abbraccia ma non protegge i suoi figli. Roma seduce, si rivela col tempo, ma ha diverse anime e periferie in cui manca un rapporto diretto con gli abitanti di questi luoghi. Abitanti ormai rassegnati alle mille manchevolezze dei servizi pubblici locali, alla criminalità organizzata a e alla burocrazia. 

Enrica Aragona nel suo romanzo affronta varie tematiche che tracciano una trama fluida e accattivante. L’omicidio della giovane donna è l’inizio di un viaggio nel dolore, nei sensi di colpa, nel complesso rapporto genitori-figli, nel mondo delle malattie mentali. Tutti abbiamo i nostri demoni ben racchiusi in zone d’ombra relegate nelle profondità del nostro essere. I problemi iniziano quando i demoni si liberano e raggiungono la superficie delle nostre coscienze. 

La protagonista del romanzo, la commissaria Nadia Montecorvo, ha un passato difficile. Ha fatto delle scelte che oggi non perdona a se stessa. L’indagine innesca un effetto domino che svela fatti celati nell’ombra. 

L’autrice narra i fatti e compone ritratti psicologici dei personaggi calandoli in una società celata dietro la maschera del perbenismo. Ogni capitolo collabora a creare una spirale di crudeltà umana e fragilità dei sentimenti. Viene a galla una gran verità: per amare gli altri occorre prima amare se stessi. 

A stemperare l’atmosfera delle questioni oscure, c’è l’arma dell’ironia ben padroneggiata dalla scrittrice perchè ci vuol coraggio a entrare in un vissuto doloroso, nei sensi di colpa, nell’odio che porta alla vendetta e alla perdizione. 

“A Roma si muore da soli” non è solo l’occasione per leggere un buon giallo, è il ribaltamento della normalità nello scambio di ruoli fissati dalla società. È la liberazione di segreti che, per troppo tempo, sono rimasti intrappolati. Il passato non fa sconti, non si può cancellare. Affrontare il mondo non è facile e ci vuol un gran coraggio. Alcuni personaggi sono ambigui e tessono ragnatele di dipendenza, menzogne e dominazione. 

“A Roma si muore da soli” è un romanzo che coinvolge catapultandoti in un mondo dove sogni e aspirazioni muoiono nella lotta per la sopravvivenza. In fondo si nasce e si muore soli. In mezzo c’è la vita.


mercoledì 25 ottobre 2023

RECENSIONE | "La casa del mago" di Emanuele Trevi

“La casa del mago” (Ponte alle Grazie) è il nuovo, bellissimo libro di Emanuele Trevi, premio Strega con “Due vite”. Il “mago” del titolo è suo padre Mario, magnetico e sfuggente psicanalista junghiano scomparso nel 2011. Trevi inizia un viaggio per comprendere l’indecifrabile genitore attraverso la casa del mago, quella in cui lo scrittore finisce per vivere.


STILE: 8 | STORIA: 8 | COVER: 7
La casa del mago
Emanuele Trevi

Editore: Ponte alle Grazie
Pagine: 256
Prezzo: € 18,00
Sinossi

Nel memorabile incipit di questo libro, la madre di Emanuele Trevi, allora bambino, riferendosi al padre gli ripete spesso un'istruzione enigmatica: «Lo sai com’è fatto». Per non perderlo (ad esempio, fra le calli di Venezia, in una passeggiata dell'infanzia) occorre comprendere e accettare la legge della sua distrazione, della sua distanza.

Il padre, Mario Trevi, celebre e riservatissimo psicoanalista junghiano, per Emanuele è il mago, un guaritore di anime. Alla sua morte lascia un appartamento-studio che nessuno vuole acquistare, un antro ancora abitato da Psiche, dai vapori invisibili delle vite storte che per decenni ha lenito, raddrizzato. Così il figlio decide di farne casa propria, di trasferirsi nella sua atmosfera inquieta e feconda, e così facendo prova a sciogliere (o ad approfondire?) l'enigma del padre.

Muovendosi nel suo sempre mutevole territorio, fra autobiografia, riflessione sul senso dei rapporti e dell'esistenza, storia culturale del Novecento (ne La casa del mago – accanto a straordinari personaggi contemporanei, tra cui spicca Paradisa, una prostituta peruviana – figurano Carl Gustav Jung, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Ernst Bernhard...), Emanuele Trevi ci offre il suo romanzo più personale, più commovente, più ironico (e perfino umoristico): una discesa negli inferi e nella psicosi, una scala che avvicina i vivi e i morti, i savi e i pazzi. Perché ogni vita nasconde una luce, se la si sa stanare; e i gesti e le parole più semplici rimandano alla trama più sottile dell'essere, se li si ascoltare, se si sa lasciarli accadere.





Lo sai com’è fatto

Con questo memorabile incipit, la madre di Emanuele Trevi, allora bambino, riferendosi al padre, ci accoglie mettendo ben in chiaro che tutti, Emanuele in primis e noi con lui, dobbiamo accettare la legge della sua distrazione, della sua distanza.

Per Emanuele il padre, Mario Trevi, è il mago, un guaritore di anime. Trevi vuol andare oltre l’immagine del genitore, attraverso la conoscenza del padre arrivare a una più profonda conoscenza di se stesso.

Trevi, dopo la morte del genitore, cerca di vendere l’appartamento-studio nell’elegante quartiere Parioli di Roma ma nessuno vuole acquistarla. C’è chi la trova buia, chi un po’ polverosa, chi un po’ rumorosa. C’è sempre qualcosa che non va.

Quello non era un posto qualunque, ma l’antro di un grande guaritore, un luogo dove la Cura si era giocata a viso aperto la sua partita col Male: e vincesse il più scaltro dei due, se ne era capace.

Così, seguendo il destino, decide di farne casa propria entrando in un ambiente misterioso ancora saturo dalla presenza delle vite storte che per decenni il padre ha lenito, raddrizzato. La casa diventa simbolo dell’Anima, custodisce l’eco della voce dei pazienti che si affidano al Mago.

Il trasloco fu semplicissimo, come si svolgono i traslochi nei film. Del resto, non mi è mai interessato possedere nulla di particolare; l’unica cosa materiale a cui attribuisco valore sono i soldi, e quelli stanno saggiamente in banca, non esistono più nemmeno in concreto.

In quei novanta metri quadrati, l’autore ritrova la presenza del padre attraverso gli oggetti, solo apparentemente insignificanti, disseminati nelle stanze della casa. Questi oggetti nel loro insieme formano “il museo del padre”, ognuno ha un significato, è legato a un ricordo, rivela un lato del carattere paterno. Tutto ha una spiritualità intrinseca, una energia vitale e rassicurante. Vengono alla luce sentimenti e ricordi di persone che non ci sono più ma che sono state importanti per lui. Persone che hanno avuto un’anima e davanti a quest’anima lo scrittore cerca sé stesso rivedendosi non solo adulto, ma anche bambino e ragazzo. Racconta Trevi il rapporto con il padre Mario.

Bellissimo l’episodio in cui nei dedali di Venezia, durante la Biennale, il piccolo Emanuele si attacca alla cinta dell’impermeabile del padre, sempre distratto, per scoprire alla fine d’essersi attaccato tutto il giorno al “trench sbagliato”. Per fortuna, seguendo i consigli materni, ha messo in tasca la saponetta dell’albergo in cui soggiornano su cui è stampato l’indirizzo.

Tuttavia se il passato porta con sé delusioni, insoddisfazioni, errori fatti, il presente si mostra avvolto in una fitta nebbia e Trevi figlio ripopola la casa con strane figure. Infatti Emanuele inizia a trovare tracce del passaggio di una, non ben definita, presenza. Vasi cinesi preziosi che svaniscono nel nulla, la comparsa di un piattino con un mozzicone di sigaretta macchiato di rossetto che compare al centro della scrivania paterna, la pila del telecomando che non è più al suo posto. Chi si introduce in casa, nel cuore della notte, lasciando tracce del suo passaggio?

Chi è la Visitatrice che “si manifestava con dispetti e scompigli di piccola entità” mentre il proprietario di casa dorme beato?

Una cosa è certa: Emanuele non rinnega mai la sua inquietante tranquillità ma è deciso, alla morte del mago, a penetrare l’enigma di “quell’uomo meraviglioso e misterioso”, in vita tanto affettuoso quanto impenetrabile.

Alla misteriosa Visitatrice si affianca la figura, questa ben definita, della Degenerata, la colf sudamericana che non è minimamente capace di portare a termine nessun lavoro domestico “e sparge  una patina di sciatteria ovunque”. Degenerata sfrutta il suo datore di lavoro Emanuele che, da perfetto inetto, non riesce a licenziarla e continua a pagarla per dei lavori che non svolge.

Grazie a Degenerata, il protagonista conosce un’irresistibile donna dalla pelle sempre “sudata e vanigliata”, il suo nome è Paradisa, una prostituta peruviana dal carattere imperturbabile.

Accanto alla Visitatrice, alla Degenerata e a Paradisa, troviamo grandi personalità come Carl Gustav Jung, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli ed Ernest Bernhard.

Emanuele Trevi cerca di comporre, con toni lievi e a tratti umoristici, il ritratto del padre. Sicuramente un ritratto parziale perché nel padre sussiste sempre un lato che si sottrae alla conoscenza. Attraverso la scrittura Trevi mostra le proprie debolezze senza alcun timore, anzi le usa per ancorare la realtà. L’esplorazione della sua interiorità lo mette in comunicazione con i morti nella convinzione che solo dopo la morte si possono capire le persone amate.

Non è che in assoluto i morti non comunichino con i vivi, semmai devono verificarsi determinate circostanze perché il messaggio arrivi al destinatario.

Con i suoi scritti Trevi avvicina i vivi e i morti, consola i primi e dona immortalità a chi non c’è più.

“La casa del mago” è un libro potente e commovente, un libro che inizia con un racconto personale e poi si espande a inglobare un po’ tutti noi. Trevi ci apre le porte della sua memoria privata, ci guida in uno spazio intimo in cui il dolore per la perdita del padre si intreccia alla dolcezza del ricordo e all’ironia verso sé stesso.

La consapevolezza della morte è come il centro di ogni tipo di scrittura, e in particolare di quella autobiografica. Si potrebbe arrivare a dire che di qualsiasi cosa apparentemente parli la scrittura, questo muco dell’Io, il suo unico argomento reale è la morte. L’Io è il suddito fedele, il premuroso paggio della morte.

Con le parole lo scrittore crea il ritratto del padre e del mondo che lo circonda. È un salto indietro nel tempo, dei flashback di quando era bambino. Essere figlio “di un mistero” non è facile. Mario c’è e allo stesso tempo non c’è, è presenza e assenza, chiuso nel silenzio in “quel retrobottega che Montaigne consiglia di farsi sempre nella testa” per ritrovare il controllo di sé, riecheggiano le parole della madre, “sai com’è fatto!”

Trevi figlio non fa luce su alcun mistero. L’attimo fuggente conserva la sua bellezza.

Un equilibrio imprevedibile di forze contrarie, una configurazione unica del caso nella fuga degli specchi della possibilità, un oracolo cinese.

Enigmi a parte, una verità emerge da “La casa del mago”: i padri vanno amati, protetti e rispettati. Il tempo, lo sappiamo, porta via le persone che amiamo. La scrittura è un mezzo per donare loro l’immortalità, per riportarli in vita e continuare a dialogare con loro.

martedì 17 ottobre 2023

RECENSIONE | "Le streghe di Manningtree" di A.K. Blakemore

Dal 17 ottobre in libreria "Le streghe di Manningtree" (Fazi Editore), l’emozionante romanzo di esordio di A.K. Blakemore. È la storia di una piccola comunità lacerata dai sospetti e dalla superstizione, in cui il potere degli uomini è sempre più illimitato mentre la sicurezza delle donne è sempre più minata.


STILE: 8 | STORIA: 8 | COVER: 8
Le streghe di Manningtree
A.K. Blakemore

Editore: Fazi
Pagine: 336
Prezzo: € 18,50
Sinossi

Inghilterra, 1643. Il Parlamento combatte contro il re, la guerra civile infuria, il fervore puritano attanaglia il Paese e il terrore della dannazione brucia dietro ogni ombra. A Manningtree, una cittadina della contea dell’Essex privata dei suoi uomini fin dall’inizio della guerra, le donne sono abbandonate a se stesse; soprattutto alcune di loro, che vivono ai margini della comunità: le anziane, le povere, le non sposate, quelle dalla lingua affilata. In una casupola sulle colline abita la giovane Rebecca West, figlia della vedova Beldam West, «donnaccia, compagna di bevute, madre»; tra un espediente e l’altro Rebecca trascina faticosamente i suoi giorni, oscurati dallo spettro incombente della miseria e ravvivati soltanto dall’infatuazione per lo scrivano John Edes. Finché, a scombussolare una quotidianità scandita da malelingue e battibecchi, in città non arriva un uomo: Matthew Hopkins, il nuovo locandiere, che si mostra fin dal principio molto curioso. Il suo sguardo indagatore si concentra sulle donne più umili e disgraziate, alle quali comincia a porre strane domande. E quando un bambino viene colto da una misteriosa febbre e inizia a farneticare di congreghe e patti, le domande assumono un tono sempre più incalzante…





Siamo state legate da nome, destino e sangue, e non esiste altro.

Inghilterra, 1643. Il Parlamento combatte contro il re, la guerra civile infuria, il fervore puritano attanaglia il Paese e il terrore della dannazione brucia dietro ogni ombra. A Manningtree, una cittadina della contea dell’Essex privata dei suoi uomini fin dall’inizio della guerra, le donne sono abbandonate a se stesse; soprattutto alcune di loro, che vivono ai margini della comunità: le anziane, le povere, le non sposate, quelle dalla lingua affilata.

Voce narrante è la giovane Rebecca West.

Sono povera. Ma quel che è peggio è che sono povera e diversa.

Sua madre, conosciuta come Beldam West, è una vedova coraggiosa con la passione per il bere. Rebecca e la madre vivono insieme nella misera casa, fame e sospetto inquinano i rapporti con i vicini. In chiesa le due donne occupano la penultima panca e da lì possono osservare come “le donne si fanno vento con i fazzoletti, diffondendo un effluvio eterogeneo di acqua alle rose, sangue raggrumato, sudore e cenere.”

Un giorno giunge in città, per affari non ben definiti, un pallido sconosciuto vestito di nero dalla testa ai piedi di nome Matthew Hopkins. Tutti provano una gran ammirazione per i bei vestiti che indossa e per la sua apparente cultura. Ma Rebecca non si unisce al coro dell’entusiasmo generale.

Matthew Hopkins, gentiluomo e studioso di Cambridge. È piuttosto giovane e bello. Un paio di baffi curati e una bocca fine e leziosa. I suoi indumenti sono di una raffinatezza non comune a Manningtree e trasmettono un’eleganza tenuta a freno: gli stivali alti lucidati a fondo, i boccoli che gli sfiorano il petto. Stivali neri, guanti neri, mantello nero, ricci neri e un viso diafano che fluttua al centro di quel funebre simulacro.

Hopkins si mostra subito molto curioso, il suo sguardo indagatore si concentra sulle donne più umili e disgraziate, inizia a porre strane domande.

C’è qualcosa in lui di inclinato e inconsistente, come se tutto il suo allestimento drammatico non ospitasse la solita carne umana.

Rebecca concentra fatalmente la sua attenzione su un giovane studioso dai modi miti di nome John Edes.

Sia la figura di Rebecca West che quella di Edes, sono realmente esistite e se ne ha documentazione negli archivi a cui attinge la scrittrice che, con la fantasia, ne narra il loro coinvolgimento.

Nella cittadina di Manningtree tutto sembra tranquillo, ma sotto la cenere il fuoco inizia a prendere vita. Iniziano ad accadere cose strane: nell’oscurità si nascondono forme strane, animali tormentati da una specie di allucinazioni, bambini colti da febbri misteriose. Ed ecco farsi strada tra fanatismo e superstizione, l’accusa più infamante: a Manningtree ci sono le streghe.

 Quando le donne pensano da sole, pensano il male.

Hopkins si svela essere l’Inquisitore e la sua attenzione è tutta per Rebecca, sua madre e per le loro vicine. Nei cuori delle donne sole, abbandonate a se stesse, brucia la dannazione e il Diavolo deve essere sconfitto. La povertà stravolge corpo e mente. I sogni svaniscono, la fame resta. Per un tozzo di pane si è disposti a tutto. Il processo alle streghe ha inizio, nello stesso calderone si gettano Dio, il Diavolo, i folletti.

In una cultura intrisa di fervore puritano, la priorità era data allo spirito e non alla carne. I corpi delle donne tentano e dannano chi si avvicina loro.

Ho letto con vivo interesse “Le streghe di Manningtree” e mi ha colpito vedere come la povertà e il disinteresse sociale diventino fonte di accuse verso donne indifese che non hanno più il diritto di sognare, di avere dei desideri e di guardare a un futuro migliore. La loro paura diventa tangibile alimentata da una rabbia che nasce dall’indifferenza degli altri. Il romanzo oltrepassa la semplice rivisitazione dei fatti e mostra i fattori sociali e culturali che hanno portato alla caccia alle streghe. Fattori religiosi, economici e sociali, carestia, il crescente radicalismo puritano dell’Inghilterra. Il mondo dello spirito entra in conflitto con il mondo della carne, tutto si trasforma in una minaccia ultraterrena. Accusate di praticare malefici e di adorare il diavolo, le donne di Manningtree vengono legate con il filo nero del fanatismo, della superstizione, delle torture che producono confessioni ma non verità.

Lo stesso Hopkins, nel romanzo, può essere considerato come un vile opportunista, un manipolatore, un difensore del dogma puritano. Ma il focus sono le perseguitate con le loro paure e insicurezze di donne costrette a vivere ai margini della società. Erano vittime senza voce. Tuttavia “le streghe” non sono figure appartenenti al passato. Ci sono ancora donne che vengono giustiziate perchè accusate di stregoneria. In generale si può affermare che la guerra alle donne non è mai cessata ma ha cambiato aspetto diventando violenza domestica e sessuale, economica e strutturale. A noi donne, nel romanzo Rebecca apre la via, spetta organizzarci contro la moderna caccia alle streghe. Nessuno lo farà al posto nostro.

“Le streghe di Manningtree” ci porta in luoghi oscuri dove sospetto, sfiducia e tradimento, si scatenano mentre gli uomini arroganti continuano a sottomettere le donne. La trama è ricca, intrisa di superstizione, distruzione e paura. La vicenda narrata è frutto di una accurata ricerca storica che catapulta il lettore in tempi remoti e costumi diversi. La lettura è fluida ricca di emozioni e riflessioni. Ma protagonista vera del romanzo è la diffidenza dell’uomo verso l’ignoto e verso la donna quando si mostra “diversa” dai canoni tradizionali di ogni epoca.

“Le streghe di Manningtree” è un’immersione nelle pulsioni più profonde degli uomini, nell’amore amaro, nella giustizia che giustizia non è. Ieri come oggi. La ricerca della libertà è sempre un mondo oscuro da attraversare con l’orgoglio di essere donne.