lunedì 26 aprile 2021

RECENSIONE | "Benedetto sia il padre" di Rosa Ventrella

“Benedetto sia il padre” (Mondadori) di Rosa Ventrella, scrittrice de “La malalegna” (Mondadori) e di “Storia di una famiglia perbene” (Newton Compton Editore), è un romanzo che vi porterà in un vortice di emozioni perché racconta una storia coraggiosa che narra il lungo e arduo percorso per arrivare a maturare la capacità di perdonare e rinascere a nuova vita. La protagonista si chiama Rosa, ma non coincide del tutto con la Rosa che scrive, ed è la voce narrante di un romanzo in cui realtà e interiorità si confondono, spostando i confini tracciati da una linea in cui l’amore e la paura prevalgono, a tratti, l’uno sull’altra. È la storia di una famiglia in cui la violenza è la misura della quotidianità. Il padre-padrone era detto “Faccia d’angelo” perché era bellissimo e invece era un diavolo che con gli occhi ti poteva incenerire, con uno schiaffo pietrificare. Uomo perfetto agli occhi degli estranei, anima nera nei confronti della moglie e dei figli. Per lui il rispetto passava attraverso l’autorità e la violenza.

Papà si chiamava Giuseppe. Un padre bellissimo, di una bellezza rara a trovarsi dalle mie parti. Una bellezza che non si piegava ad alcun altruismo e a nessuna indulgenza. Amabile e irresistibile, come solo le cose malvagie sanno essere.


STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 7
Benedetto sia il padre
Rosa Ventrella

Editore: Mondadori
Prezzo: € 18,00
Pagine: 240
Sinossi

Quanto di quel che abbiamo vissuto da bambini ci rimane attaccato alla pelle? Ci si può salvare dal male che abbiamo respirato crescendo? Rosa è nata nel quartiere San Nicola, il più antico e malfamato di Bari, un affollarsi di case bianche solcate da vichi stretti che corrono verso il mare, un posto dove la violenza "ti veniva cucita addosso non appena venivi al mondo". E a insegnarla a lei e ai suoi fratelli è stato il padre, soprannominato da tutti Faccia d'angelo per la finezza dei lineamenti, il portamento elegante e i denti bianchissimi; tanto quanto nera – " 'gniera gniera' come un pozzo profondo" – aveva l'anima. Faccia d'angelo ha riversato sui figli e soprattutto sulla moglie – una donna orgogliosa ma fragilissima, consumata dall'amore e dal desiderio che la tenevano legata a lui – la sua furia cieca, l'altalena dei suoi umori, tutte le sue menzogne e tradimenti. Ma Rosa è convinta di essersi salvata: ha incontrato Marco, ha creduto di riconoscere in lui un profugo come lei, è fuggita a Roma con lui, ha persino storpiato il proprio nome. Oggi, però, mentre il suo matrimonio sta naufragando, riceve la telefonata più difficile, quella davanti alla quale non può più sottrarsi alla memoria. Ed è costretta ad affrontare il viaggio a ritroso, verso la sua terra e la sua adolescenza, alla ricerca delle radici dell'odio per il padre ma anche di quelle del desiderio, scoperto attraverso l'amicizia proibita con una prostituta e l'attrazione segreta per un uomo più grande. E, ancora, alla ricerca del coraggio per liberarsi finalmente da un'eredità oscura e difficilissima da estirpare. Rosa Ventrella ha scritto un romanzo coraggioso, animato dalla volontà di smascherare la violenza che affonda le sue radici, dure e nodose come quelle degli olivi, nella storia di tante famiglie. Ma, con la sua lingua capace di dolcezza e ferocia, ha saputo mettere in scena a ogni pagina l'istinto vitale, la capacità di perdonare e rinascere.


Si può amare e odiare tutto in una volta? Si può sperare che chi amiamo scompaia, si disintegri come il pulviscolo nell’alone di luce, muoia? Perché certe volte volevo che mio padre scomparisse, che morisse. Ero brutta anche in questo forse. Brutto il mio cuore. Nero e catramoso.

Rosa è nata nel quartiere San Nicola, il più antico e malfamato di Bari vecchia, dove le case sono unite tra loro e i vichi stretti corrono verso il mare. È un luogo dove la violenza dilaga fuori e dentro le case. Ottimo maestro di violenza è “Faccia d’angelo”, il papà di Rosa, che ha riversato sui figli e sulla moglie – donna orgogliosa ma fragile, consumata dall’amore e dal desiderio che la tenevano legata a lui – la sua furia cieca, le sue menzogne e tradimenti. Quando Rosa incontra Marco, vede in lui la salvezza da quella vita infernale. Il matrimonio è il lasciapassare per ricominciare lontano dai vicoli di Bari, lontano dalla bambina che era stata, dalle mazzate, dalla rabbia. I due ragazzi si trasferiscono a Roma ma le cose non vanno come sperato. Il vero volto di Marco non tarderà a mostrarsi.

Si può essere felici con un marito ingombrante, autoritario, faticoso e insieme fragile? Si poteva essere felici con un padre che esigeva a ogni costo che le nostre vite ruotassero intorno alla sua?

Proprio mentre il suo matrimonio sta naufragando, Rosa riceve una telefonata che la porterà a intraprendere un viaggio a ritroso verso la sua terra e la sua adolescenza. Nella sua terra natia la giovane donna dovrà affrontare il suo passato alla ricerca del coraggio per liberarsi finalmente dalla sua oscura eredità.

Ai vecchi si perdona tutto, vero? E invece no, papà, io non ti perdono. Caccio indietro i sensi di colpa per non essere stata vicino a mia madre in tutti questi anni e lascio che si acquattino acidi nella gola. Sono certa che arriverà il giorno in cui sconterò anche questa, insieme alle altre colpe che mi sento addosso. Una su tutte, l’idea che mia figlia abbia vissuto quello che ha marchiato anche me, la mia infanzia incompiuta, la violenza riflessa. Come si salva un figlio dalle radici marce che ci sono cresciute tutt’intorno?

La scrittrice ha definito il suo romanzo “un viaggio d’amore e riconciliazione”.  Fin dalla prima pagina, mi sono sentita coinvolta in questa storia dura, a tratti feroce, che però cela un messaggio di riconciliazione. Tutti noi abbiamo un passato fatto di ricordi belli ma anche dolorosi. Crescendo Rosa non vede allentarsi la stretta emotiva che la lega al suo vissuto e il suo presente riflette gli errori del passato in un meccanismo di ripetizioni a spirale duro a morire. Rosa si porta dentro i fantasmi di una famiglia persa nella violenza, nel tacito subire, nel male che si annuncia come l’arrivo di una tempesta. La bambina di ieri, la donna di oggi, è cresciuta in questa oscurità. Forse, si arriva a pensare, il male è in noi e la violenza è in noi. Gli errori dei genitori ricadono sui figli e possono condizionare la loro vita da adulti. Sarà necessario attraversare la terra del dolore per approdare a una nuova consapevolezza di sé mentre si volge lo sguardo verso il futuro.

Che tu sia benedetto, papà, che tu sia maledetto. Benedetto sia il padre, dicevano durante le orazioni. Un grano, due grani, tre grani, li senti scorrere tra le dita e tutto si aggiusta, il mondo da rovesciato ritorna esatto.

La Rosa bambina è una figura spaventata e struggente, lei si sente come un burattino mosso dal volere degli altri. Il suo vero “io” è invisibile.

Negli ultimi tempi la mia inquietudine era aumentata. Fuori, ero una ragazzina di tredici anni con le gambe esili e dritte, un viso ovale e scuro e grandi occhi chiari. Dentro ero un’anima tormentata. Non ridevo mai e stavo sempre in silenzio. Avevo imparato che le parole erano inutili e ferivano le persone.

“Benedetto sia il padre” è una storia nera di violenza domestica, di dolore ma anche di rinascita. È uno tsunami emotivo che accompagna i ricordi di Rosa, anima viva e travolgente del romanzo. Bari vecchia, con il suo labirinto di viuzze acciottolate, le chiese e le edicole votive, il mare a cullarla, rappresenta un microcosmo nel capoluogo pugliese che offre scorci d’improvvisa bellezza. Tante le storie che sono passate per i vicoli del quartiere San Nicola dove la vita di ogni famiglia è sempre osservata da occhi curiosi e non si è mai soli. Un tempo quelli che infrangevano la legge ed erano diventati qualcuno, andavano rispettati. Erano i mariuoli al cui cospetto i vecchi levavano la bombetta e le donne chinavano la testa.

Anche Agata, la mamma di Rosa, chinava la testa davanti alla violenza del marito e nei suoi occhi portava i segni indelebili della sconfitta. I suoi figli erano spettatori silenziosi di quella bufera di rabbia che vedeva il padre infierire sulla loro mamma. Lei si lasciava castigare con rassegnazione mentre le parole e le mani del marito lasciavano segni indelebili sulla sua anima e sul suo corpo.

Una narrazione fluida e raffinata che travolge e coinvolge. Ho amato questo romanzo, le sue atmosfere, il suo finale spietato. Ogni personaggio cattura l’attenzione del lettore in una variegata sequela di caratteri, di scelte sbagliate, di desideri repressi, di vecchi legami e grandi cambiamenti. Si parla di donne e uomini che vivono in una terra senza tempo, in un rione fatto di soprusi ricevuti e inferti.

“Benedetto sia il padre” è il primo romanzo di Rosa Ventrella che leggo. Questo libro mi ha emozionata. Veramente bella la descrizione di Bari vecchia vista attraverso gli occhi di una bambina e il tema della violenza domestica è trattato con molta sensibilità. Dalle parole dell’autrice si percepisce il clima di malessere e le difficoltà che i protagonisti devono affrontare. Ed ecco far capolino i consigli dei vicini, i riti delle masciare, le abitudini di un quartiere dove solo chi è nato lì viene sentito parte integrante della comunità.

Nelle vene della protagonista scorre l’odio, nella sua mente i rari ricordi belli si schiantano contro quelli brutti. L’odio ha permesso a Rosa di considerare il padre invincibile, eterno. Come si fa a dimenticare l’odio? Ora che il tempo è passato, negli occhi del padre sembra brillare una  nuove luce. Come può aver dimenticato tutta la violenza inferta, le scorribande amorose, il dolore inferto alla moglie?

Per conquistare la serenità del cuore, occorre perdonare. Per poter costruire un ponte verso il futuro, occorre perdonare. Per perdonare il padre, Rosa deve perdonare se stessa. Per tornare alla vita, per non scappare più e rinascere nell’amore verso gli altri e soprattutto verso se stessa. Solo così c’è salvezza e riconciliazione.

martedì 20 aprile 2021

RECENSIONE | "La fattoria del Coup de Vague" di Georges Simenon

“La fattoria del Coup de Vague” è un bel romanzo di uno dei più grandi scrittori del Novecento, il belga Georges Simenon. Questa nuova pubblicazione per Adelphi, nella traduzione di Simona Mambrini,  è un’ulteriore testimonianza della  bravura di Simenon nel dipingere le anime inquiete che si muovono dietro la rispettabilità della gente semplice di provincia. Il libro è stato scritto a Beynac, in Dordogna, nel 1938, ed è apparso prima a puntate sul settimanale “Marianne” e poi in volume nel febbraio del 1939.


STILE: 7 | STORIA: 8 | COVER: 7
La fattoria del Coup de Vague
Georges Simenon

Editore: Adelphi
Pagine: 142
Prezzo: € 18,00
Sinossi

Ogni mattina, da tutte le case prospicienti la spiaggia denominata, quasi fosse un presagio, Le Coup de Vague (alla lettera: «il colpo d'onda»), avanzano, nella melma e nei banchi di sabbia lasciati dall'oceano che via via si ritira, i carretti dei mitilicoltori che vanno a raccogliere ostriche e cozze. Tra loro, Jean e sua zia Hortense, «coriacea, granitica, solida», quasi fosse «fatta anche lei di calcare». È Hortense, insieme alla sorella Émilie, con la sua «faccia da suora», a mandare avanti la casa e l'azienda. E dalle zie Jean si lascia passivamente coccolare e tiranneggiare: gli va bene così, ha una motocicletta nuova, le partite a biliardo con gli amici e tutte le donne che vuole, perché è un pezzo di marcantonio, con i capelli neri e gli occhi azzurri. Quando però la ragazza che frequenta da alcuni mesi gli annuncia di essere incinta, la monotona serenità della loro vita viene travolta da qualcosa che assomiglia proprio a un'ondata, improvvisa, violenta. A sistemare la faccenda ci pensa, naturalmente, zia Hortense: basta conoscere il medico giusto, e pagare. Ma qualcosa va storto, e Jean è costretto a sposarla, quella Marthe pallida, spenta e sempre più malata, di cui le zie si prendono cura con zelo occhiuto e soffocante... 


La fattoria del Coup de Vague era quasi altrettanto irreale: una casa rosa, di un rosa troppo intenso, con un filo di fumo che prolungava il comignolo al di sopra della spiaggia di ciottoli, dove di lì a poco i carretti avrebbero ripreso contatto con la terraferma.

Ogni giorno da tutte le case prospicenti la spiaggia denominata Le Coup de Vague, avanzano, nella melma e nei banchi di sabbia lasciati dall’oceano che via via si ritira, i carretti dei miticoltori che vanno a raccogliere cozze e ostriche. Tra loro, Jean e sua zia Hortense “coriacea, granitica, solida, sembrava fatta anche lei di calcare come le ostriche e le rocce”. È proprio Hortense, “una virago, robusta come un uomo, che comanda tutti a bacchetta”, a mandare avanti insieme alla sorella Emilie, la casa e l’azienda.

Come zia Hortense, anche zia Emilie era sempre vestita di nero e come lei non perdeva mai la calma e la dignità che le rendevano diverse dagli altri.

Jean ha sempre vissuto felicemente con le sue due zie, nel villaggio di Marsilly, non lontano da La Rochelle. Gli piace il suo lavoro, la sua moto e di tanto in tanto una partita a biliardo. È un bel ragazzo di ventotto anni, alto e robusto, con i capelli neri e gli occhi azzurri, e ha tutte le donne che vuole. La vita gli sembra semplice, senza mistero. Si lascia passivamente coccolare e tiranneggiare dalle due donne, ma un “coup de vague” (alla lettera: “il colpo d’onda”) sconvolgerà ogni cosa. Infatti l’apparente tranquillità delle sorelle Laclau rischia di andare in frantumi con l’arrivo della giovane Marthe, la sposa del loro amatissimo e viziato nipote Jean. Marthe è incinta e Jean la sposa senza amarla. Le zie gli dicono di non preoccuparsi e lui non si preoccupa. Il giorno del matrimonio tutto è forzato, artificiale. Da quel momento il ragazzo scoprirà che il villaggio non è così sereno come sembra e che le zie nascondono verità mai dette.

“Le zie avevano un certo modo di essere, di parlare, di vivere, di esprimersi per sottointesi, con continue reticenze e sospiri.”

Marthe e Jean vivranno a Coup de Vague. La giovane sposa ha una salute fragile e rimane costretta a letto per lunghi periodi. È pallida, spenta e sempre più malata. Di lei si occupano, con solerzia quasi soffocante, le zie ma la salute di Marthe peggiora. Jean si sente sempre più distante dalla moglie e l’atmosfera in casa diventa opprimente. Allora le zie organizzano per il nipote un viaggio di lavoro ad Algeri. Non chiedono il suo parere, lo mettono davanti al fatto compiuto come se la sua assenza fosse necessaria per risolvere una certa situazione che si trascina da mesi. Poteva lui opporsi al volere delle due donne? Certo che no! Così il ragazzo parte e la sua sposa rimane sola in casa con le due zie. Al suo ritorno Jean troverà drammatiche novità e verrà colto da un timido e fugace tentativo di assumersi le proprie responsabilità. Tutto durerà il tempo di un batter di ciglia. La vita continua, il lavoro non può aspettare, così le giornate organizzate dalle zie riprenderanno il loro inesorabile fluire scandite dalla ripetizione di azioni sempre uguali cancellando i ricordi. Jean si rifugia nel bozzolo cupo, ma anche rassicurante, dei legami familiari.

Povero Jean, pedina passiva in un gioco che non comprende! Le zie gli avevano detto che era figlio del loro fratello Lèon, morto in Gabon, e di una ragazza morta nel darlo alla luce. Tuttavia lui non si chiamava Laclau, come le zie, ma Jean e basta. Ciò non lo disturbava più di tanto. Eppure…

Jean si rendeva conto che il paese che conosceva, quel paese immobile in cui ciascuno era al proprio posto, una volta era popolato da una gioventù irrequieta, e che la facciata di solidità era stata raggiunta solo a furia di amorazzi e di matrimoni, ma sicuramente anche di litigi, crisi di disperazione e sfuriate!

Nel villaggio c’era un certo compiacimento nel vedere i giovani ripetere gli stessi errori dei loro genitori. Per Jean non esistevano ambizioni, desideri da realizzare, pensava di essere in una botte di ferro visto le floride attività di famiglia. Le zie onnipresenti venivano chiamate, in paese, le due megere che ottenevano sempre ciò che volevano. Eppure…

Tutti, nel villaggio, alludevano a fatti che lui non conosceva. Sussurravano al suo passaggio, lasciavano le frasi sospese a metà, parlavano con gli occhi e tenevano la bocca chiusa.

“La fattoria del Coup de Vague” appartiene alla serie dei  romanzi duri , quelli in cui non compare il commissario Maigret, personaggio letterario creato da Simenon. Con una scrittura apparentemente semplice, essenziale, studiata, con dialoghi brevi e con poche e calibrate parole, l’autore descrive la natura umana come un miscuglio inestricabile di bene e male. Nel romanzo non ci sono crimini specifici, nessuna morte violenta o sospetta, nessuna indagine poliziesca eppure si respira un’aria di azioni malvagie perpetuate dai vari personaggi. Infatti lo scrittore crea atmosfere molto dense in cui gli uomini si tolgono la maschera per mostrare il loro lato oscuro, smascherando fragilità e debolezze. Il passato, il presente, il futuro sono legati da un destino che non concede alcuna possibilità di cambiamento. Jean è spettatore della sua vita, non ne diventa mai protagonista. Se ha qualche anelito di ribellione, lo soffoca subito vivendo come sotto l’effetto di una perpetua anestesia.

“La fattoria del Coup de Vague” è un romanzo duro perché tratta temi spinosi che mettono a nudo un universo di ordinaria infelicità abitato da vecchi fantasmi e segnato da ferite mai rimarginate.

Lo scrittore apre i cassetti segreti del villaggio e mostra i suoi abitanti con le loro contraddizioni, con i drammi cha hanno radici nel passato e si riflettono sul presente. Simenon traccia anche qui, come nella maggior parte dei suoi lavori, una galleria di ritratti femminili che animano il romanzo. Le donne sono le vere protagoniste di questa vicenda narrata. Alcune sono sottomesse e accettano mariti violenti.  Altre ripercorrono la strada della docilità perché è l’unico esempio di vita matrimoniale che conoscono, decise a non decidere si lasciano trasportare dal destino. Poi ci sono le donne che non necessitano di un uomo per affrontare la vita. Sono donne indipendenti che decidono tutto per tutti e non si fermano mai a soppesare le conseguenze delle loro azioni. La cattiveria altrui scivola sui loro volti impassibili anche nei momenti più bui. Eppure…

martedì 13 aprile 2021

RECENSIONE | "Le libertà violate" di Antonella Cavallo

Ho conosciuto Antonella Cavallo, nelle vesti di scrittrice, grazie al suo romanzo “La pietra dei sogni” (recensione). Ricordo un’intrigante e appassionante storia romantica in cui si rispecchiano inganni, vizi e virtù, potere e contraddizioni di famiglie rispettate e potenti pronte a calpestare i sentimenti di tutti pur di ottenere un vantaggio personale. L’autrice narrava di donne protagoniste e artefici della propria vita. Ognuno deve essere libero di poter scegliere, deve mostrare coraggio e determinazione accettando le conseguenze delle proprie azioni. Tuttavia non sempre si può scegliere.

Nel 2013 Antonella Cavallo ha ricevuto il premio speciale “Le rosse Pergamene” per il suo impegno nel progetto di lettura e scrittura che ha visto coinvolte le detenute della casa circondariale di San Vittore. Da questo progetto è nata una sconvolgente raccolta di brevi racconti “Le Libertà Violate. Donne dietro le sbarre. Racconti di ordinaria inquietudine”,  pubblicata da SensoInverso Edizioni.


STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 7
Le libertà violate
Antonella Cavallo

Editore: SensoInverso
Pagine: 60
Prezzo: € 10,00
Sinossi

Dall'esperienza dell'autrice, che ha avuto rapporti diretti con le detenute della casa circondariale di San Vittore e con i detenuti di Bollate, nasce questa toccante e sconvolgente raccolta di racconti, dietro la quale si celano vite e sentimenti veri.


“Le Libertà Violate” è una raccolta sconvolgente di storie, di maledette questioni personali, che mettono in campo la violenza, le umiliazioni, i sogni infranti, l’amore calpestato, l’innocenza violata. La vita e la morte si affrontano come in una partita a scacchi, mossa dopo mossa. Noi entriamo in contatto con i vari personaggi e non sappiamo chi sia il bianco e chi il nero. I ruoli spesso sono interscambiabili e basta un attimo affinchè tutto cambi. A volte si verificano delle situazioni che portano a scelte drammatiche  e ci contrappongono a  un avversario in grado di rubarci il bello della vita coinvolgendo le persone che amiamo e noi stessi. Quando si viene travolti da eventi che segnano l’anima, si può reagire con impulsività. Tutti però sappiamo che le azioni hanno delle conseguenze che possono rivoluzionare drasticamente la nostra vita.

L’autrice ci accompagna dietro le sbarre della casa circondariale di San Vittore e i suoi racconti ci permettono di capire cosa significhi vivere dietro le sbarre. I sensi di colpa, la certezza di non poter cambiare il passato e la paura che pervade nel momento in cui si è a un passo dall’agognata libertà.

Sono qui tra le mie cose, i miei odori, i miei gatti, la mia intimità, la mia libertà, a pensare che se il corso della mia vita mi avesse indotta a fare una scelta diversa, avrei rischiato di essere al posto di ognuna di loro, privata della mia identità…

I personaggi che incontrerete nei sette racconti che compongono la raccolta “Le Libertà Violate” riescono a creare una forte empatia con il lettore permettendogli di entrare nelle loro vite. È facile percepire i loro sogni, le delusioni, le scelte che nascono dalla paura, dalla sofferenza, dalla consapevolezza che sbagliare è umano, pagare per i propri sbagli è giusto, ma dalle ceneri si può rinascere.

La prigione è un argomento delicato che scuote i nostri cuori perché sappiamo, inutile negarlo, che in circostanze particolari tutti possiamo sbagliare. È tutto un attimo e la vita cambia. In prigione le detenute non dimenticano il loro passato, la colpa è tatuata sulla loro pelle e brucia, notte e giorno, nel ricordo di ciò che è successo. Ognuna di loro ha una storia difficile intrisa di dolore e violenza subita o inflitta. Essere in prigione vuol dire sicuramente scontare la propria pena, anche se non tutti i reclusi sono colpevoli, ma vuol dire anche costruire un ponte verso il futuro. In carcere si perde il contatto con la realtà, non c’è privacy, non c’è alcuna libertà. Tutto è condivisione anche i sentimenti. Bisogna seguire delle regole e la mente viaggia, supera le sbarre e sulle sue ali reca tante domande. Ci si chiede se la famiglia capirà e perdonerà, se c’è qualcuno che si prende cura dei propri cari. Quando giunge il giorno della liberazione la gioia per la riconquistata libertà si cela nella paura di ciò che ci aspetta fuori dalla prigione. Si ha paura di non trovare più un lavoro, di non  ritrovare i vecchi amici, si ha paura di vedere negli occhi degli altri la sfiducia. Di tutto ciò si parla nella storia di “Claudia”.

Claudia Delgado diede un ultimo sguardo alla sua cella, un pozzo di acqua putrida nella quale aveva galleggiato per ventiquattro anni e quattro mesi: ottomilaottocentottantotto giorni, nessuno dei quali trascorso senza che il ricordo della sua colpa affiorasse a tormentare la sua coscienza.

Un ritorno alla libertà segnato dalla paura di varcare la soglia del carcere e di non sapere come, quelli oltre le mura, l’avrebbero accolta.

“Miranda” è la protagonista di una storia di amore malato, di violenze subite dall’uomo che le aveva giurato amore e rispetto.

L’ennesima litigata furibonda, una pedata sferrata al mio ventre gravido, una raffica di schiaffi, il flacone dell’acido muriatico che mi si sta rovesciando addosso, il kris con la lama a tre curve tra le mie mani, e poi il buio. Pentita? Non lo so. Dispiaciuta? Mi dispiace per mio figlio, l’ho partorito tra le sbarre…

“Anna” rappresenta il pregiudizio: se sei in carcere te lo meriti. È la storia di uno scherzo finito male. In un locale si svolge la festa per il compleanno di Anna. Lo scontro con un cameriere, il vassoio con leccornie pescherecce che si ribalta, un pugno sferrato in piena faccia al gestore del locale e Anna vede la sua vita cambiare. Se solo avesse saputo la verità…

“Malamore” trascina il lettore in una vorticosa relazione, in un rapporto di coppia avvelenato. Lei è andata contro tutti pur di sposare quell’uomo che non è mai piaciuto alla sua famiglia, stregata da un amore che si era rivelato un inferno.

Non ho presente la prima volta, ma ricordo con precisione ogni suo sguardo, ogni parola, ogni bacio, ogni sberla, ogni pugno, ogni morso, ogni vergata che ha inciso, violato il mio corpo e annientato la mia anima.

È un’ossessione d’amore che incatena alla passione. È la paura di vivere.

Lascialo! Vattene! Denuncialo! Come se fosse facile… Chi sono io? Dove vado? Da chi?

Le storie narrate sono frutto dell’immaginazione dell’autrice ma sono ispirate da storie vere e racchiudono tante emozioni che spingono alla riflessione. L’autrice riesce a creare dei preziosi scrigni narrativi in cui depone rapporti travagliati, vuoti incolmabili, lontananze che deturpano il cuore. Ci sono umanità e speranza in questi racconti di vite spezzate per scelte impulsive.

Il filo rosso di questi racconti è la responsabilità delle protagoniste, è quell’attimo che cambia la vita, è il raccontarsi con onestà, è la maternità, è la rabbia e il pentimento. Per rinascere bisogna attraversare il dolore e non vergognarsi di pentirsi.

“Le Libertà Violate” sono racconti che appassionano come un romanzo anzi ogni storia è il seme di una narrazione più complessa. Antonella Cavallo accende i riflettori su storie dure che raccontano di vite piegate ma non spezzate. Storie di violenze subite e inferte. Non c’è, siatene certi, neanche l’ombra di una giustificazione o di un giudicare. Con le parole l’autrice vuol costruire un ponte tra chi è dentro e chi è fuori le mura del carcere. Queste esperienze di vita parlano di illusioni, di scelte, di desideri e della difficoltà di cambiare la propria esistenza. Leggendo i brevi racconti ho provato curiosità e stupore nel vedere la luce della vita cedere il passo al buio del male. Dalla lettura traspare una gran verità: siamo tutti esseri imperfetti e a volte la vita ci sfugge di mano. Gli errori si pagano, sempre. Se però credi fermamente di poter cambiare, non farai più gli errori del passato. Il carcere è un tempo sospeso in cui rivivi l’orrore delle tue scelte, la pesantezza del passato condiziona il tuo presente e cresce la paura della tanto desiderata libertà. Si ha paura di ciò che troveremo al di là del muro della prigione.

“Le Libertà Violate” è una raccolta di racconti che merita di essere letta. Ogni storia scandisce l’aprirsi e il chiudersi dei cancelli della prigione. È giusto pagare per i propri errori, pur tenendo sempre presente il diritto alla dignità del condannato. Il diritto alla speranza, poi, non può essere negato a nessuno. Dal carcere non si esce perdenti, si deve avere la possibilità di ricominciare.

giovedì 8 aprile 2021

RECENSIONE | "Quello che non sai" di Susy Galluzzo

“Quello che non sai” di Susy Galluzzo, Fazi Editore nella collana Le strade, è un romanzo che racconta la realtà della maternità senza filtri, senza giudizi né edulcorazioni. Svela la paura di essere madri ma anche il timore tutto femminile di non essere mai all’altezza.

Susy Galluzzo è nata in Calabria ma vive a Roma da molti anni. È laureata in Giurisprudenza e svolge la professione di avvocato. Ha iniziato a scrivere “Quello che non sai” dopo la scomparsa della madre.


STILE: 8 | STORIA: 8 | COVER: 7
Quello che non sai
Susy Galluzzo

Editore: Fazi
Pagine: 240
Prezzo: € 16,00
Sinossi

Cosa succede quando non si ha più voglia di essere una madre? Cosa può fare una donna stretta tra gli obblighi familiari e la sua vita di prima? Michela, detta Ella, ha passato gli ultimi anni a crescere la figlia Ilaria, dedicandosi a lei in ogni momento anche a scapito del suo lavoro di medico e del rapporto con il marito Aurelio. Ella conosce tutte le manie e le ansie di Ilaria, sa quanto è brava a tennis ma anche quanto le è difficile concentrarsi a scuola. Dopo un allenamento, Ilaria si distrae guardando il cellulare, ferma in mezzo alla strada, mentre una macchina avanza veloce verso di lei. Ella non fa niente per avvisarla: rimane immobile a osservare la figlia che, salva per un soffio, se ne accorge. In quell’istante, inevitabilmente, tra loro si rompe qualcosa. Ella così inizia a sfogarsi scrivendo un diario rivolto alla propria madre, morta quindici anni prima: pagina dopo pagina, racconta delle crepe che si allargano fino a incrinare in modo irreversibile i delicati equilibri familiari, si addentra nei propri ricordi per riportare a galla vecchi e nuovi conflitti, rimpianti e sensi di colpa, per trovare infine la forza di affrontare la verità e ricominciare.  


Ho una figlia. Sei sorpresa, vero?

Eri così contrariata dalla mia scelta di non avere figli per via della carriera.

Dicevi che era una decisione di Aurelio, non mia.

Già sono madre anch’io. E tu sei nonna. Contenta?

Si chiama Ilaria, ha tredici anni, compiuti a marzo.

È la mia vita.

E anche la mia morte.

Michela, detta Ella, ha trascorso gli ultimi anni a crescere sua figlia Ilaria, che ora ha tredici anni. Per essere madre, Ella ha rinunciato al suo lavoro di medico, e persino il rapporto con suo marito Aurelio ha subito contraccolpi. Ella conosce le manie e le ansie di Ilaria, sa quanto è brava a tennis e quanto le sia difficile concentrarsi a scuola. Un pomeriggio dopo gli allenamenti, Ilaria, distratta dal cellulare, non si accorge di essersi fermata in mezzo alla strada. Ella è lì, dall’altra parte della strada, vede una macchina avvicinarsi a gran velocità ma non fa nulla per avvisare la figlia. Ilaria si accorge di tutto e inevitabilmente tra madre e figlia qualcosa si spezza. Così Ella inizia a scrivere un diario, ogni pagina è rivolta a sua madre, venuta a mancare quindici anni prima. In quelle pagine ammetterà cose che una donna, una madre, non confesserebbe mai, neppure a se stessa.

Spesso diamo per scontato che la maternità sia un’esperienza esaltante, un momento di felicità idilliaca, la realizzazione a cui ogni donna aspira. Eppure sono tanti i falsi miti e i tabù che ruotano intorno a questo tema. Iniziamo dicendo che le supermamme non esistono. Sono il prodotto di una società che vuole la donna una mamma perfetta, sempre sorridente e riposata, appagata e contenta, in grado di risolvere ogni problema. Madri che non conoscono la paura, il sentirsi inadeguate, che non si sentono in colpa ogni volta che qualcosa non va. La maternità, come ogni aspetto dell’esistenza, mostra invece il rovescio della medaglia fatto di ansie e di colpe che si celano nel rapporto madre-figlio.

Ella, la protagonista e voce narrante del romanzo, rappresenta la maternità lontana dall’istinto materno, lontana dall’immaginario tradizionale. Racconta il suo lato oscuro racchiudendolo nella domanda:  «Si può odiare la propria creatura che pur si ama tantissimo?»

Aurelio e Michela, entrambi medici, hanno creato una famiglia all’apparenza perfetta. Lei ha rinunciato al lavoro per dedicarsi a figlia e marito. Ilaria e i suoi rituali ossessivo-compulsivo, assorbono tutte le energie di Ella mentre Aurelio si rifiuta di vedere la realtà.

Aurelio, tu sei mai stato costretto a fare tre giri intorno al palazzo con la macchina anche a notte fonda perché altrimenti il giorno dopo le sarebbe successo qualcosa di brutto? Hai mai assistito alle sue scenate isteriche quando non riesce a fare le traduzioni di greco? Sai come sottolinea tua figlia i libri? Una riga rossa, due gialle e la terza verde. E poi il contrario. Una riga verde, due gialle e una rossa. Ti ha mai buttato un piatto quasi addosso perché c’era il numero sbagliato di penne dentro? Tu non le hai mai visto queste cose, Aurelio, perché Ilaria si vergogna di farle davanti a te.

Ed eccoli i ruoli ben delineati dei genitori. Lui è il papà buono che non nega nulla alla sua amata bimba, con lei ha un rapporto esclusivo che non prevede la partecipazione di Ella. Lei si trova in mezzo tra i rimproveri del marito e i capricci della figlia. Ilaria sa bene come irritare la madre, come ferirla con l’arma delle parole.

Capito, ho ripetuto dentro di me. Capito. Capito che non ne posso più di voi due, di questa situazione, di questa santa alleanza. Il papà buono che difende la figlia sfortunata dalla madre idiota. Andatevene pure, andatevene.

Spesso Ella si sente mancare il fiato e allora si rifugia nella casa della sua mamma defunta. La casa diventa per lei un guscio in cui rintanarsi per fuggire al passato, alle persone, alla paura. Pensieri brutti e cattivi si agitano nella sua mente, nascono dal sentirsi inadeguata come madre e trovano terreno fertile  nell’ambiente familiare e nelle dinamiche che creano solitudine e un senso di inadeguatezza intorno a lei. Tutto è però soffuso, perso in quella terra di mezzo che si colloca tra il desiderare e il mettere in atto tali fantasie. I momenti bui, i sentimenti negativi sono un tabù e non possono essere espressi. Ella sente che la verità è fatta da storie e vicende che lei deve ripercorrere con un cammino irto di ostacoli. Avere brutti pensieri è una cosa che accade, ma così si diventa una madre cattiva e indegna. Il mito della maternità cade in frantumi ma non siate così sicure nel condannare Ella. Nulla accade per caso, non ci sono innocenti e colpevoli. La maternità è un terreno sconosciuto minato che a volte ferisce l’animo con inquietanti turbamenti. Alcune donne si sentono sole, senza appoggio, prigioniere di fantasmi che le assillano e cariche di un pessimismo che le travolge. Le fantasie nere si insinuano nella mente, tenaci e cattive.

“Quello che non sai” è un’avventura travolgente in quel territorio di timori e paure che è la maternità. Con sguardo implacabile, l’autrice racconta l’anatomia di un matrimonio e ci mostra un universo spesso ignoto e ignorato. Si procede con ansia nella lettura, pagina dopo pagina, in un continuo crescendo di tensione. Si oscilla tra passato e presente e l’evolversi del rapporto, tra Ella e sua figlia, tiene con il fiato sospeso fino all’ultima pagina.

Il romanzo si legge con grande partecipazione emotiva grazie alla capacità dell’autrice di dare vita a personaggi complessi e ben sviluppati che spingono i lettori a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni.

“Quello che non sai” è il racconto di una storia interiore che intreccia una storia d’amore con il sacrificio, la famiglia e la sopravvivenza. Ella è un personaggio capace di suscitare solidarietà e anche un senso di inquietudine, di avversione. Immedesimarsi con lei è facile.

Il romanzo di Susy Galluzzo è una storia intensa e disperata che apre uno squarcio nel lato oscuro di una madre in seria difficoltà. Tuttavia da quella lacerazione potrebbe entrare la luce della speranza per colorare la vita con i colori dell’amore materno.

giovedì 1 aprile 2021

RECENSIONE | "Due sulla torre" di Thomas Hardy

“Due sulla torre” è un romanzo dell’autore inglese Thomas Hardy (Fazi editore), autore di classici intramontabili. È la storia d’amore sfortunata tra l’infelice Lady Constantine, moglie di Sir Blount Constantine, e Swithin St. Cleeve, un astronomo più giovane di lei. La morte del marito di lei lascia gli amanti liberi di coronare il loro sogno d’amore, ma la scoperta di un’eredità li separerà. “Due sulla torre” fu pubblicato per la prima volta da Sampson Low, Londra, in tre volumi nel 1882. Il libro non incontrò il parere positivo dei lettori e venne considerato sconveniente dal punto di vista della morale. Opinione diffusa volle la condanna del libro anche per la satira della Chiesa che i critici decretarono ben evidente nella storia. L’autore non accettò mai questi giudizi perché era certo di aver narrato una storia nello scrupoloso rispetto delle convenienze.

Oggi, leggere questo romanzo di Thomas Hardy, ci permette di comprendere meglio la società, la drammaticità, l’infelicità e la tenerezza che accompagnano questa imperfetta storia d’amore.


STILE: 8 | STORIA: 7 | COVER: 7
Due sulla torre
Thomas Hardy

Editore: Fazi
Pagine: 336
Prezzo: € 17,00
Sinossi
Abbandonata dal marito, un ricco proprietario terriero, Viviette Constantine si innamora di Swithin St. Cleeve, di ben nove anni più giovane di lei, bellissimo, colto e gentile figlio di un curato di campagna. Swithin è un astronomo e lavora in cima a una torre dove trascorre tutto il suo tempo a studiare gli astri e i fenomeni celesti. Il romanzo – ambientato nella campagna dell’amato Dorset – narra la storia del loro amore, che si sviluppa in un intreccio intinto nelle forti passioni del genere “sensazionale”: morti presunte, adulterio, matrimoni segreti, angosciosi patemi riguardo alle convenienze sociali, gravidanze inopportune, nozze riparatrici, cuori spezzati da dolori cocenti e felicità improvvise.





C’è una misura a partire dalla quale si inizia a parlare di dignità; più avanti, c’è una misura dalla quale inizia la solennità; ancora oltre, si inizia a parlare di maestosità e più oltre ancora inizia lo spavento. Questa gamma rispecchia vagamente le dimensioni dell’universo stellare.

Nella prefazione, l’autore scrive che questo esile racconto è nato dal desiderio di incastonare la vicenda emotiva di due esistenze infinitesimali sullo sfondo stupendo dell’universo stellare e di offrire ai lettori la sensazione che, di queste due grandezze contrapposte, la più piccola sarebbe parsa loro, in quanto uomini, la più grande.

Abbandonata dal marito, un ricco proprietario terriero, Viviette Constantine si innamora di Swithin St. Cleeve, di ben nove anni più giovane di lei, bellissimo, colto e gentile, figlio di un curato di campagna. Swithin è un astronomo e lavora in cima a una torre, costruita nel diciottesimo secolo nella contea del Wessex, dove trascorre tutto il suo tempo a studiare gli astri e i fenomeni celesti. Il libro percorre la storia del loro amore, cresciuto tra morti presunte, adulteri, matrimoni segreti, gravidanze inopportune, nozze riparatrici e cuori spezzati da dolori cocenti e felicità improvvise. Proprio questi elementi della trama attirarono sul romanzo, all’indomani della sua pubblicazione, numerose critiche negative  e accuse d’indecenza.

Le differenze sociali dei due protagonisti sono subito evidenti. Lei è una donna aristocratica, lui ha umili origini. Ad aggravare la situazione incide la differenza d’età e Viviette si domanda spesso se Swithin l’amerà sempre anche quando lui sarà ancora giovane e lei mostrerà i primi capelli bianchi. Inoltre la donna è dilaniata dal rimorso di ostacolare, con il suo amore, il lavoro del giovane scienziato. La loro storia non conosce momenti di pura felicità. Ogni tentativo di costruire un futuro s’infrange sul volere di un destino ingannatore. Ogni loro azione è neutralizzata da un insieme di coincidenze e contrattempi che trasformano i due innamorati in vittime sfortunate. Vittime sull’orlo di un pozzo infinito che guardano al cielo per cercar conforto e trovano solo la negazione di ogni soccorso. Infatti gli ostacoli sorgeranno in gran quantità modificando ogni aspettativa. I semi della tragedia ci sono tutti seminati da un destino che è quasi sempre ostile e cancella la speranza dal cuore degli uomini. L’amore al contatto con la realtà mostra di essere una chimera. È condizionato dalla società e dalle istituzioni. Gli esseri umani, come sosteneva l’amato Schopenhauer, sono predestinati all’infelicità.

Viviette è un personaggio che l’autore ci mostra attraverso mille sfaccettature. È una donna prigioniera nel suo ruolo di moglie, cerca un’alternativa alla noia, cambia spesso umore e reagisce agli eventi con una forte carica emotiva. È bella e romantica, a guidare le sue scelte è il suo cuore e non la testa

Swithin incarna lo studioso sempre dedito allo studio e alla ricerca pura trascurando i problemi finanziari e pratici. È un giovane ingenuo, ama i suoi studi e scruta il cielo per scoprire nuovi corpi che si muovono nel firmamento ma non si accorge della realtà. È un gran sognatore e spera di diventare un famoso astronomo. I due amanti sfortunati si muovono in una scia drammatica, escogitano scappatoie e inventano scuse, e si ha una contrapposizione tra il calore della loro passione e la freddezza dei corpi celesti. Le stelle e i pianeti sono osservatori muti di una felicità che gli uomini rincorrono ma non riescono a vivere. Desiderare non vuol dire ottenere anche perché non si ha la minima possibilità di vincere contro un via vai infernale di coincidenze e imprevisti.

La trama è ricca di eventi, colpi di scena e tutto appare un po’ forzato, incredibile. Le coincidenze si moltiplicano e i personaggi sono in balia del destino, i due innamorati vedono il loro amore infranto da forze esterne che si alleano in un destino senza pietà.

“Due sulla torre” è un romanzo nel tipico stile Hardy: ispirazione gotica, un intreccio impeccabile, ottima caratterizzazione dei personaggi, segni del destino disseminati ovunque e un finale che vi lascerà senza parole. Tutto è iniziato sulla torre e sulla torre tutto si concluderà. Le stelle guardano da lassù gli enigmi degli uomini e ripetono le parole di Seneca:

Niente dura sempre, poche cose a lungo; varia solo il loro modo di essere fragili, il loro modo di finire, ma tutto ciò che ha avuto un inizio avrà anche una fine.

E mentre il cielo immutabile guarda verso la terra, gli uomini dovranno mutare il loro animo per accendere la speranza e spegnere i tormenti.