martedì 17 settembre 2019

RECENSIONE | "Madrigale senza suono" di Andrea Tarabbia

“Madrigale senza suono” di Andrea Tarabbia, edito da Bollati Boringhieri, vince il Premio Campiello 2019 con 73 voti sui 277 arrivati dalla Giuria Popolare di Lettori Anonimi. Il romanzo propone la figura del Principe Carlo Gesualdo da Venosa, assassino e raffinato compositore di madrigali, vissuto tra il Cinquecento e il Seicento, riscoperto da Stravinskij. Al suo secondo Campiello, la prima volta lo scrittore era stato in cinquina nel 2016 con “Il giardino delle mosche” (recensione), Tarabbia ha affascinato la Giuria Popolare con un romanzo che si articola su più piani di lettura dipingendo con le parole il ritratto del Principe Carlo Gesualdo da Venosa, cittadino del Regno di Napoli. Da questa cronaca emergono temi importanti come la solitudine, la nascita del processo creativo, l’infelicità che strazia il cuore, la presenza della Morte.

Con fascino e maestria, lo scrittore ci propone un viaggio attraverso i secoli con la potenza misteriosa della musica che s’intreccia con il più efferato dei delitti, in un gioco di specchi potente e sottilissimo alla scoperta del Male.

STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 8
Madrigale senza suono
Andrea Tarabbia

Editore: Bollati Boringhieri
Pagine: 373
Prezzo: € 16,50
Sinossi
Un uomo solo, tormentato, compie un efferato omicidio perché obbligato dalle convenzioni del suo tempo. Da lì scaturisce, inarginabile, il suo genio artistico.

Gesualdo da Venosa, il celebre principe madrigalista vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento, è il centro attorno a cui ruota il congegno ipnotico di questo romanzo gotico e sensuale. Come può, è la domanda scandalosa sottesa, il male dare vita a tale e tanta purezza sopra uno spartito?

Per vendicare l’onore e il tradimento, il principe di Venosa uccide Maria D’Avalos, dopo averla sposata con qualche pettegolezzo e al tempo stesso con clamore. Fin qui la Storia. Il resto è la nostalgia che ne deriva, la solitudine del principe: è lì, nel sangue e nel tormento, che Andrea Tarabbia intinge il suo pennino e trascina il lettore in un labirinto.

Questa storia − è ciò che il lettore scopre sbalordito − ci parla dritti in faccia, scollina i secoli e arriva fino al nostro oggi, si spinge fino a lambire i confini noti eppure sempre imprendibili tra delitto e genio.

 

Io penso che la musica sia la sposa delle parole, e che ogni parola sia una scatola dove tutto il dolore e la gioia e la vita sono contenuti. Con i suoni noi possiamo far esplodere questa scatola, donarle più dolore, più gioia e più vita di quanto ne abbia già. Questo fa la musica: fa esplodere i suoni.
Carlo Gesualdo da Venosa, il celebre principe madrigalista vissuto a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, è il centro attorno a cui ruota questo romanzo gotico e sensuale. Il principe è un uomo tormentato che vive prigioniero della sua solitudine. Ha compiuto un efferato omicidio perché obbligato dalle convenzioni del suo tempo. Molto probabilmente furono le interessate delazioni che imponevano l’obbligo di vendicare col sangue l’offesa fatta al suo nome che spinsero il principe a uccidere sua moglie Maria D’Avalos e il suo amante Fabrizio Carafa.
Ella ti tradisce. Ne va del gran cognome. Tutto il casato è in pericolo quando una moglie tradisce un marito. Soltanto una cosa, in questi casi, salva l’onore e il casato.
Il sangue lava ogni cosa, uccidere in nome del blasone è un atto estremo di giustizia e da questa giustizia intrisa di violenza e di dolore scaturisce il suo genio artistico. Quindi nasce spontanea una domanda: “Come può il male dar vita a tale e tanta purezza sopra uno spartito?”

Tra le pagine del libro si cela un abbraccio indissolubile tra arte e sangue, tra dolore e solitudine, tra tormento e pazzia. Delitto e genio si rincorrono in un gioco macabro ed esaltante. La storia del principe è narrata attraverso una cronaca scritta, molto probabilmente, da un servo deforme ma fedele di nome Gioacchino, la cui identità è però circondata dal mistero. Tale cronaca verrà riscoperta, nel 1960, dal grande compositore Igor Stravinskij che acquisterà il manoscritto nella bottega di un antiquario a Napoli. Sarà proprio Stravinskij a creare un parallelismo tra Gesualdo e il Novecento, tra due modi diversi di vedere il mondo che convergono però in una stessa visione dell’arte. Per il principe il processo creativo nasce dalla violenza della vita, per Stravinskij prende forma da una riflessiva ricerca. Per tutto il romanzo le voci dei due compositori si rincorrono, si passano il testimone in una staffetta di scoperta a cui partecipano vari personaggi. Si compone così un madrigale senza musica ma a più voci modellato dalle parole che danno tragicità. Tragicità che ritroviamo nell’esistenza di Carlo, appassionato di caccia e musicista raffinato.

Il tormentato racconto della vita di Gesualdo ipnotizza e trasmette disperazione, malinconia, sofferenza che diventano ombra e intrigo.
Le minacce non vengono da lontano, da nemici esterni, ma da un demone che abbiamo o che possiede che ci sta accanto, e che ci frolla l’anima per insediarvisi, e masticarla.
Molti segreti si celano nelle stanze e nei sotterranei del castello dove vive segregata una creatura nata nella morte e vissuta nelle tenebre. Gioacchino è la coscienza di Gesualdo, forse è Gesualdo stesso che si muove nel buio della sua mente per giustificare ciò che di terribile ha fatto proclamandosi vittima di altre malefiche menti. Il suo genio è figlio della notte in cui uccise barbaramente la prima amatissima moglie e il suo amante. Da qui nascono leggende sul principe Gesualdo, marito tradito autorizzato dalla legge a vendicarsi o  uomo prigioniero della sensualità di Maria reso folle dal vedere quella passionalità rivolta a qualcun altro? Comunque siano andate le cose, il principe non viene punito dalla legge e si ritira nel suo castello, dove inizia a comporre per sottrarsi alle tenebre della disperazione e per trovare una ragione di vita. La sua musica è cupa, prende gli elementi della tradizione e li trasforma in qualcosa di nuovo. Sul pentagramma egli scrive il suo dolore e crea bellezza. Intorno a lui una girandola di personaggi alcuni reali altri frutto di fantasia. Cardinali e poeti come Torquato Tasso, si mescolano con streghe, bestie diaboliche, fanciulle licenziose. È affascinante vedere come la verità storica sconfini nella leggenda.
Tutto ciò che ha avuto intorno è morto. È morta la prima moglie, e per mano sua, e lui l’amava; la seconda è impazzita quindi è come se fosse morta; è morto il primo figlio; è morto il secondo; sono morti i parenti di cui si fidava.
Il romanzo di Tarabbia si sofferma anche sul rapporto tra Gesualdo e i suoi due figli. Alfonsino ed Emanuele muoiono entrambi e il principe non riesce a superare questi lutti. Si chiude nel suo studio fino a morire d’inedia. Molti, quindi, gli eventi tragici che hanno segnato la vita di Carlo. La sua musica, figlia di anni cupi, diventa quasi una richiesta di perdono, un pentimento. Il male che lui ha compiuto prende corpo, cresce, si nutre del dolore e poi si libera in un mondo intriso di credenze magiche e superstizioni. La stregoneria s’insinua pian piano nel romanzo donando un fascino gotico alla narrazione con pozioni magiche e malinconie che non hanno una cura. La morte domina la vita di Gesualdo e lo sfregia nell’anima dove è ancorato il suo dolore. È la sua punizione per il male che ha fatto.

 “Madrigale senza suono” è una storia maledetta che parla di musica, di morte e di follia ma anche di creazione e di bellezza. Lo fa tramite un diario, dei commenti, delle lettere e ci sono molte voci proprio come nei madrigali. Sono voci inquietanti, ammalianti e suadenti. Egli, però, fallisce su tutta la linea: uccide una moglie che ama e non riesce a creare la musica che avrebbe voluto. Ciò lo fa scivolare nella follia. Come può  attraverso la musica raccontare l’infinito del creato? Le note sono limitate, l’infinito non lo è.
Così ha provato a essere la musica mia, Gioacchino: armonica e dissonante, e cupa, e festevole, e malinconica, e sacra. Ma tutti questi svolazzi, amico mio, oggi non mi sembrano che ornamenti, ghirlande appese in un giorno di festa e poi dimenticate. È una musica colpevole, Gioacchino: pensa ad altri mondi, ma sa soltanto ornare questo.
Il principe Carlo Gesualdo da Venosa morì l’8 settembre 1613, nel suo castello, a soli 47 anni. La sua vita tormentata, segnata da sofferenze, trovò pace fra le braccia della morte.  Mi piace pensare che con la morte il suo cuore si sia aperto alla speranza. La sua sofferenza, la sua visione del mondo e dell’amore, la sua musica, il suo pentimento si fonderanno in un unico nucleo e finalmente nel buio della sua vita comparirà la luce dell’infinito. Nessuno muore mai completamente, c’è sempre qualcosa che rimane. La musica che ha creato, Principe Gesualdo, sarà la sua eternità.

4 commenti: