lunedì 25 settembre 2023

RECENSIONE | "In nome di Ipazia" di Dacia Maraini

In libreria, edito da Solferino e curato da Eugenio Murrali, il nuovo libro di Dacia Maraini “In nome di Ipazia: Riflessioni sul destino femminile”, un dettagliato ed interessante mosaico sulla condizione femminile costituito da storici articoli, testimonianze, lettere e testi comparsi sul “Corriere della Sera”.

Scrittrice, drammaturga, saggista, poetessa, figura di spicco della cultura italiana dagli anni Sessanta ad oggi, Dacia Maraini si è fatta interprete dei mutamenti della nostra società. Le sue storie, che molto spesso hanno trattato il tema della condizione femminile, hanno sempre riscosso un grande successo in Italia e all’estero.


STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 8
In nome di Ipazia
Dacia Maraini

Editore: Solferino
Pagine: 288
Prezzo: € 18,00
Sinossi

L’astronoma Ipazia, vissuta ad Alessandria nel V secolo d.C., teorizzò in modo inaudito per l’epoca che la Terra non è il centro dell’universo ma un pianeta che gira intorno al Sole. E divenne ben presto vittima dei fanatici cristiani. «Oggi» scrive Dacia Maraini «a quasi duemila anni di distanza ci sono ancora donne che soffrono come lei per la semplice ragione che hanno pensato con la propria testa, che hanno voluto studiare, indagare e opporsi al totalitarismo.» Sono donne maltrattate, insultate, minacciate, che spesso hanno denunciato la violenza domestica, ma non sono state credute. Donne sole e abbandonate. Donne che lottano per i loro diritti in tutto il mondo, dal Medio Oriente all’Occidente. Anche dove ci sembra di poter dire che la civiltà ha raggiunto la sua età più matura. In queste pagine, la scrittrice che ha dato vita nei suoi romanzi a indimenticabili protagoniste letterarie (una per tutte: Marianna Ucrìa) dà voce alle donne senza nome di ogni Paese in lotta per la dignità. Mettendo nero su bianco un vero e proprio manifesto al femminile, una denuncia appassionata che racconta le schiavitù che sopravvivono e i muri ancora da abbattere, le libertà negate e la ribellione necessaria. Un appello coinvolgente sul destino femminile contro ogni stereotipo e violenza.





La cultura del possesso divora uomini fragili che hanno paura di perdere i privilegi che considerano dovuti per legge divina: comandare, controllare, possedere.

Richiamandosi a Ipazia, che nel V secolo d.C. combatté per le proprie idee al costo della vita, Dacia Maraini dà voce alle donne senza nome di ogni Paese in lotta per la dignità. Una denuncia appassionante che racconta le schiavitù che sopravvivono e i muri ancora da abbattere, le libertà negate e la ribellione necessaria. Un appello femminile contro ogni stereotipo e violenza.

Conosciamo meglio Ipazia il cui coraggio ispira, ancor oggi, molte donne.

Scienziata pagana del Quinto secolo, fu uccisa da fanatici cristiani.

Ipazia era un’astronoma greca che abitava nella colonia romana d’Egitto, ad Alessandria. L’impero romano aveva da poco adottato la religione cattolica. Ipazia non era una credente, era una donna colta, figlia del grande filosofo Teone. È a lei che dobbiamo l’invenzione dell’astrolabio (strumento che consentiva di localizzare gli oggetti celesti),dell’idroscopio (per misurare la densità dei liquidi) e l’aerometro (che misurava la densità di alcuni gas), strumenti sperimentali per lo studio matematico del firmamento. È la prima scienziata a teorizzare che la terra non è il centro dell’Universo, ma gira intorno al Sole in un cosmo pieno di altri sistemi solari. Naturalmente ciò la rende sospetta in un clima di fanatismo, di ripudio della cultura e della scienza in nome della crescente religione cristiana che non accettava che la donna potesse avere ruoli importanti nella società ma soprattutto che avesse la libertà di pensiero senza inchinarsi davanti a nessun dogma. Un giorno, mentre parlava di stelle a un pubblico di studenti entusiasti, Ipazia venne portata via a forza dal gruppo dei Parabalani (una setta di fanatici cristiani), scarnificata con cocci affilati, smembrata, fatta a pezzi e bruciata, per cancellarne il ricordo. L’assassinio di Ipazia rimase impunito. Tuttavia la fantasia di poeti e scrittore di tutti i tempi l’hanno fatta rivivere.

Sicuramente oggi la situazione è diversa anche se ci troviamo ancora davanti a pratiche atroci. Basti pensare alle ragazze iraniane arrestate perché si sono tolte il velo e alle torture che le donne devono subire per aver rivendicato il diritto allo studio. Tutto con l’alibi della religione. La fede si sceglie liberamente non si deve imporla, come non si devono imporre comportamenti, pensieri e parole, in nome della fede. Con tenacia si è ottenuta l’abolizione della schiavitù, la ghigliottina è stata abrogata e non è più uno spettacolo di piazza, la lapidazione, la decapitazione, la tortura sono state abrogate. Eppure ci sono ancora donne che, come Ipazia, soffrono per aver osato pensare con la propria testa e che hanno voluto studiare. Sono donne maltrattate, insultate, abusate, sfruttate, accoltellate, che spesso hanno denunciato la violenza domestica, ma non sono state credute.

Dacia Maraini guarda a Ipazia come a un modello di gioiosa e serena fermezza d’animo.

La stessa gioiosa e serena fermezza d’animo che l’autrice ha conosciuto nella sua famiglia ,nella persona di Topazia, la sua coraggiosa mamma, che preferì farsi rinchiudere con il marito e le tre figlie in un campo di concentramento in Giappone, piuttosto che aderire al fascismo di Salò. Scrive Dacia nell’introduzione:

Sento ancora la voce di mia madre che sorridendo dice: «Non importa quello che dicono gli altri, ma la prima fedeltà alle proprie idee viene da te, accompagnata dalla stima per te stessa. E questa stima devi tenerla sempre alta»

Quelle idee che la scrittrice ha portato avanti per decenni, tornano in questa raccolta che denuncia le offese, la violenza, gli abusi che hanno segnato il destino femminile. Racconta di una cultura patriarcale capace di sopraffare e intralciare questo destino, senza però vincerlo del tutto.

Dacia Maraini mette a nudo gli stereotipi e la reificazione del corpo femminile (che riduce la donna a un semplice corpo, come merce desiderabile). Parla delle donne iraniane e afgane che un tempo camminavano libere per le strade. Dà voce a tutte le donne senza nome che ancora combattono per la dignità anche in Paesi che crediamo siano progrediti, la civiltà non è ancora una realtà consolidata.

Spesso mi è stato chiesto quale sia la qualità del carattere femminile che più ammiro e apprezzo. Senza alcun dubbio ho risposto: il coraggio.

Nel libro compaiono articoli storici, molto interessanti, come una lettera aperta del 1975 “In difesa dell’aborto”, indirizzata dalla Maraini al suo caro Pier Paolo Pasolini che si era detto contrario alla legalizzazione.

Segue una lettera affettuosa e ferma a Papa Francesco sullo stesso argomento. Il Pontefice aveva duramente condannato questa pratica con le parole “è come assoldare un sicario”.

Le sue parole sull’aborto, caro Papa, mi hanno molto stupita e rattristata. Non posso fare a meno di chiederle perché abbia usato termini così duri e punitivi. Vorrei solo ricordarle che nessuna donna ha il piacere di abortire.

L’autrice propone anche una serie di articoli sugli stupri di guerra, sulla violenza domestica, sul femminicidio, sulla misoginia nel cinema e nella televisione, dimostrando come la società non sia poi così cambiata.

Coinvolgente è l’inchiesta sulle carceri femminili del 1969 per Paese Sera. In quell’occasione la scrittrice incontrò una detenuta, Teresa, e ne raccontò con ironia e simpatia le quasi oneste imprese ladresche nel romanzo “Memorie di una ladra”. Da questo romanzo è stato tratto l’omonimo film straordinariamente interpretato da Monica Vitti diretta dal grande regista Carlo Di Palma.

Nel libro ci sono anche articoli di cronaca come il caso di Saman Abbas, la ragazza diciottenne pakistana uccisa a Novellara. La storia di Safiya Husaini condannata alla lapidazione, come impone la legge islamica, per aver concepito un bambino fuori dal matrimonio dopo aver subito abusi.

“In nome di Ipazia” è un libro pieno di riflessioni a favore delle donne. Continuare a parlare di emancipazione femminile è importante. La letteratura dà voce al disagio, tracciando la strada percorsa e riflettendo su quanto c’è ancora da fare. La Maraini osserva il mondo che ci circonda e condivide con noi le mille sfaccettature della condizione femminile. Ciò che lei vede, e noi con lei, non è incoraggiante.

Ogni anno ci auguriamo che il numero dei fatti di violenza possa scendere, ogni anno verifichiamo che non avviene. Cosa sta succedendo?

Più la donna si emancipa più cresce la violenza contro di lei.

Sicuramente molto c’è ancora da fare nel nome di Ipazia, un’eroina del libero pensiero messa a tacere con la massima violenza dai fautori dell’oscurantismo. Parlare di questi scottanti temi è sempre positivo. Soprattutto i ragazzi devono capire che i diritti non sono eterni, si possono sempre perdere e quindi vanno difesi. Quando si ottengono dei diritti, si calpestano dei privilegi e gli uomini fragili non vogliono perdere i privilegi che la storia ha loro assegnato: dominio, possesso e potere. Alcuni uomini non sono disposti a perdere il controllo sulle donne, in loro la cultura del possesso è un dono divino. Uomini e donne, invece, devono essere alleati e non nemici, solo così potranno creare una nuova società, un nuovo mondo abitato da due esseri diversi ma pari. Le norme sociali vanno cambiate, in nome di Ipazia.

lunedì 18 settembre 2023

RECENSIONE | "La meridiana" di Shirley Jackson

“La meridiana” è un libro del 1959 della scrittrice americana Shirley Jackson, traduzione di Silvia Pareschi per Adelphi che ha pubblicato anche “Abbiamo sempre vissuto nel castello” e “L’incubo di Hill House”. Il romanzo narra l’annuncio di un’imminente fine del mondo, annuncio che causerà un intreccio di relazioni famigliari e terrore apocalittico per creare un mondo di relazioni sinistre e macabre. Il romanzo, pubblicato nel 1949,ci apre i cancelli di una villa sinistra dove il padrone di casa è appena deceduto e la vedova sospetta che sia stato spinto giù dalle scale proprio dalla madre di lui.


STILE: 8 | STORIA: 8 | COVER: 7
La meridiana
Shirley Jackson

Editore: Adelphi
Pagine: 251
Prezzo: € 19,00
Sinossi

Una famiglia che pullula di svitati, un codazzo di parenti e amici e servitori, una villa monumentale in mezzo a un parco. Sono gli ingredienti di questo travolgente romanzo di Shirley Jackson, che si apre con i protagonisti – di tutte le età e affetti da ogni forma di mania – di ritorno dal funerale del figlio di Mrs. Halloran, che, dice serafica la piccola Fancy, la nonna ha buttato giù dalle scale: per tenersi stretta la villa. Come se non bastasse, poco dopo zia Fanny riferisce di aver avuto un incontro in giardino con il padre, defunto da tempo, il quale le ha annunciato che la fine del mondo è imminente e che loro saranno gli unici a salvarsi. E non è finita: qualcuno va a riferire la notizia in città, ed ecco presentarsi la delegazione locale dei Veri Credenti, i quali non possono che condividere la logica apocalittica, ma, siccome sono convinti che a salvarli ci penseranno gli alieni, sono venuti a chiedere di farli atterrare nel parco. E noi lettori, ormai completamente in balìa di una Jackson in stato di grazia, che dispensa a piene mani uno humour che si potrebbe definire vitreo, ci lasceremo trascinare da un crescendo di follie e sorprese – sino, letteralmente, alla fine (del mondo?).





La nonna ha ucciso il mio papà. Lo ha spinto giù dalle scale e lo ha ucciso. È stata la nonna. Non è vero?

Quando si legge un romanzo di Shirley Jackson occorre lasciar libera la mente di correre per le distese, non verdeggianti, del gotico più timido e affascinante. Anche in questo romanzo un’abitazione, casa Halloran, è il fulcro dell’immaginazione della scrittrice. Una vecchia dimora, un fantasma e sullo sfondo il villaggio teatro di un raccapricciante sterminio familiare.

La storia ha inizio la sera del funerale di Lionel Halloran, il padrone della casa. La moglie di Lionel, Maryjane, è convinta che sia stato spinto giù dalle scale e ucciso da sua madre Orianna Halloran, per ereditarne la casa, almeno fino a quando la piccola Fancy, figlia di Lionel, non diventerà maggiorenne.

A sua volta Fancy, per nulla angelica, già pensa di spingere la nonna giù per le scale.

“Fancy, tesoro, ti piacerebbe vedere la nonna schiattare sulla soglia?”  

“Sì, mamma. Quando la nonna morirà sarà tutto mio, nessuno potrà impedire che la casa e tutto il resto diventino miei.”

Ah, che bello l’amore dei nipoti!

Nella villa abitano anche Mr Richard Halloren, il padre di Lionel,  costretto sulla sedia a rotelle e affetto da demenza; l’eccentrica zia Fanny, la sorella di Richard, che non si è mai sposata; Essex, assunto per catalogare i libri della biblioteca e Miss Ogilvie, governante della giovane Fancy. La famiglia disfunzionale per eccellenza vive nella vecchia villa fatta costruire dal primo  Mr Halloran, diventato ricchissimo. Tutta la proprietà è circondata da un alto muro che la separa dal villaggio, diventato una macabra attrazione, oggi diremmo turismo nero, da quando una ragazza ha ucciso a martellate “il padre, la madre e i due fratelli minori, mettendo bruscamente fine all’albero genealogico di famiglia.”

La villa, presenta un’architettura del tutto particolare, ha in cima allo scalone la scritta

 Se non ora, quando dovremmo vivere?

Nel giardino, invece, c’è la meridiana del titolo, testimone silenziosa di generazioni passate, che si erge come un pugno nell’occhio nel mezzo del terreno matematicamente perfetto e riporta il motto che racchiude l’anima del luogo:

 Che cos’è questo mondo?

Orianna prende subito il potere della direzione della casa, è decisa a mandar tutti via tranne la nipotina Fancy che un giorno, dopo la sua morte, erediterà la casa.

A sovvertire l’apparente quiete familiare è zia Fanny. Le si presenta, nel giardino segreto della magione, il fantasma del padre che la avverte che il mondo sta per finire.

Frances, c’è pericolo. Torna a casa. Di’ a quelli che sono in casa, di’ a quelli che sono dentro, di’ loro che c’è pericolo. Di’ a quelli che sono in casa che in casa sono al sicuro. Il padre veglierà sulla casa, ma c’è pericolo.

Solo coloro che vivono nella casa si salveranno. Il mondo verrà distrutto, “ci saranno fuoco nero e acqua rossa e la terra si rivolterà urlando”. Solo coloro che stanno nella casa avranno il privilegio di essere il popolo eletto.

“Credi che saremo felici laggiù?”

 “No.” Rispose Mrs Halloran.

 “Ma d’altronde non siamo felici neanche qui.”

Naturalmente Orianna si autoproclama regina, con tanto di corona, del nuovo mondo. Tutti le devono obbedienza e fedeltà se vogliono rimanere nella casa e sfuggire alla morte. A completare questa improbabile arca di Noè arriva la signora Willow, una vecchia amica di Orianna, con le sue due figlie Julia e Arabella. Alcuni giorni dopo oltrepassa i cancelli della villa un’altra giovane donna, Gloria, figlia di un cugino di Orianna. Gloria ha diciassette anni e scopre di avere poteri da veggente. Completa l’arca un uomo, uno sconosciuto, che Fanny ha incontrato al villaggio.

Shirley Jackson, con una scrittura essenziale e pacata, un’atmosfera soft gotica, ci offre un romanzo agghiacciante che ha il potere di sconvolgere e coinvolgere il lettore. Le cose non sono mai come sembrano: mentre il sole splende c’è sempre la minaccia della distruzione, dell’oscurità che pone fine a tutto. Tra le righe serpeggia una crescente follia mentre la villa Halloran e i suoi abitanti si preparano per un mondo nuovo che potrebbe, forse possiamo eliminare il condizionale, somigliare al vecchio mondo.

Fantasmi, bugie, un groviglio di voci che si rubano la scena a vicenda, personaggi stravaganti e per niente simpatici, degrado e pretese di classe, connubio tra realtà e magia sono i pilastri che sorreggono questa storia oscura, a tratti divertente, in perfetto stile Jackson.

Il soprannaturale apre i cancelli della casa, vi entra e prepotentemente ne prende possesso riflettendosi nel giardino non più curato, nel labirinto in cui si perde la strada dell’uscita, nell’arredamento delle stanze mai mutato negli anni. Tutto annuncia una catastrofe imminente ma la vera tragedia non è nella distruzione delle cose materiali ma nelle relazioni famigliari. A metter paura sono i vivi e non i morti. Ognuno pensa per sé manipolando gli altri per la propria sopravvivenza.

I personaggi sono inquietanti, nessun escluso, a cominciare dalla piccola Fancy esempio di bambina diabolica, viziata e spaventosa, che gioca sempre e soltanto con la sua casa delle bambole che rappresenta casa Halloran in miniatura. È risentita all’idea che il mondo sarà distrutto prima che lei abbia avuto la possibilità di viverci. È una creatura intrigante che si aggira furtiva all’interno della grande villa e mira alla corona, al potere, della nonna.

Naturalmente occorre prepararsi per il prossimo mondo e il piccolo gruppo inizia a far provviste. Bruciano i libri in biblioteca per far posto alle provviste che inizialmente sono scelte in modo utile, cibo e attrezzi, poi diventano una raccolta di cose inutili (creme solari, occhiali da sole, carta igienica) solo per soddisfare i lussi a cui nessuno vuole rinunciare. Per organizzare il dopo Orianna compila il vademecum del sopravvissuto, ergendosi a regina del paradiso che verrà.

La sera prima della fine del mondo, Orianna organizza una festa nell’ampio giardino della casa. Invita tutti gli abitanti del villaggio, un commiato prima della distruzione.

Ma l’Apocalisse verrà veramente? La sera dell’ultimo giorno tutte le finestre della casa vengono coperte e i mobili spostati per bloccare le porte. A un tratto si alza un vento impetuoso, inizia un violento temporale e le luci si spengono. Cosa succederà? Shirley Jackson non lo dice. Si, no, forse, probabile, improbabile. Domande, domande e ancora domande ma nessuna risposta.

Shirley Jackson è la regina del gotico sempre sul filo del rasoio tra umorismo e orrore. “La meridiana” è un gran bel romanzo raccapricciante in cui si muovono personaggi crudeli e superficiali. Tutti vivono nell’attesa della fine del mondo ma nessuno guarda dentro di sé, un esame di coscienza sarebbe auspicabile e invece ciò non avviene. Nel romanzo si respira un’atmosfera opprimente. Ovunque si percepiscono sinistre presenze ma il romanzo contiene anche un’analisi profonda del potere sociale, dei privilegi e della superiorità di classe. I più ricchi si dichiarano detentori della verità e del potere a discapito dei più fragili, sono sicuri di essere nel giusto e per questo degni di generare una nuova razza di uomini. Nel mondo verrà bandito il male, la cattiveria, la violenza e l’egoismo, verranno cancellate le imperfezioni e regnerà l’armonia. Se l’armonia che regnerà dipenderà dagli abitanti della casa, allora è stato bello sognare.

Di una cosa c’è certezza: nemmeno la fine del mondo sembra poter redimere la parte più oscura dell’animo umano. Nell’attesa del mondo che verrà proviamo a riflettere sulla domanda: “Che cos’è questo mondo?”

martedì 12 settembre 2023

RECENSIONE | "I volti dell'ombra" di Boileau e Narcejac

“I volti dell’ombra” è un intrigante romanzo nero del 1953 pubblicato da Adelphi in una nuova traduzione a opera di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio. È il capolavoro di Pierre Boileau e Thomas Narcejac, premiata ditta del noir francese, ammiratissimi dal grande regista Alfred Hitchcock, il re del brivido.

Richard Hermantier, un magnate dell’industria, è reso cieco da un incidente. E da quel momento nell’oscurità, ogni certezza s’incrina, inizia a non fidarsi più di chi gli sta accanto.


STILE: 8 | STORIA: 8 | COVER: 7
I volti dell'ombra
Boileau e Narcejac

Editore: Adelphi
Pagine: 180
Prezzo: € 18,00
Sinossi

Quando l’esplosione accidentale di una bomba a mano sepolta in giardino lo rende cieco, Richard Hermantier, magnate dell’industria abituato a dettare legge e a incutere rispetto con una semplice occhiata, si trova costretto a trascorrere un mese di convalescenza nella sua villa in Vandea: un mese soltanto, ma cruciale, perché la fabbrica di lampadine che gestisce con piglio feroce si prepara al lancio di un prototipo destinato a rivoluzionare il mercato. In attesa di tornare al comando, Hermantier non potrà che affidarsi alle persone che gli stanno accanto: la moglie Christiane, «bella e sciocca come una Giunone», l’affascinante quanto irresponsabile fratello Maxime e Hubert, il suo socio in affari, un uomo «della razza dei pusillanimi, degli ipocriti, dei piccoli contabili». Ma l’incidente che gli ha cucito per sempre le palpebre ha minato irrimediabilmente anche la sua sicurezza, e a poco a poco, nell’implacabile calura estiva, i contorni della realtà si fanno incerti. Può davvero dare credito ai suoi sensi, ai ricordi, a quello che gli viene raccontato?





Un tempo, quando chiudeva gli occhi, quando si premeva i palmi delle mani sulle palpebre, vedeva tutto nero, un bel nero simile a un cielo profondo, in cui dopo un po’ cominciavano ad apparire soli rotanti, a delinearsi vie lattee, a esplodere girandole di stelle, e credeva che fosse così anche la notte degli occhi senza vita. Adesso non c’era più niente. Né tenebre né vuoto. Niente. Di punto in bianco si era ritrovato in un mondo nuovo.

Un tempo giovane e brillante industriale, Richard Hermantier ha perso accidentalmente la vista a causa dello scoppio di una bomba a mano sepolta in giardino. Sopravvissuto miracolosamente si ritrova sfigurato e ormai cieco. Deve imparare a fidarsi di chi lo circonda e si rassicura pensando che questo periodo di adattamento sarà sicuramente un periodo di transizione, difficile ma temporaneo. Deve solo riuscire a orientarsi e potrà tornare l’uomo indipendente che tutti conoscono. Accanto a Hermantier si muovono:

Christiane, sua moglie, donna priva “di slancio vitale”, fredda, egoista e avida, “bella e sciocca come una Giunone”;

L’affascinante quanto irresponsabile fratello Maxime, uomo spensierato che ama il piacere, la libertà e la prodigalità smodata;

Hubert, suo migliore amico e socio in affari, un meschino calcolatore che mangia sempre caramelline alla liquirizia. Fingerà di assecondare gli ordini di Hermantier mentre agisce solo per salvaguardare i propri capitali.

Eppure Hermantier, uomo dal carattere ombroso e incline a cupi pensieri, ha costantemente l’impressione che tutti gli stiano mentendo e manipolando. Firma documenti e assegni ma una voce interiore lo fa dubitare dicendo: “Non farlo!” Così inizia a diffidare di tutti. La sua sensazione sarà frutto d’immaginazione? I contorni della realtà si fanno incerti, nessuno dice la verità sulle sue reali condizioni di salute. Perché?

L’industriale avrà anche perso la vista ma neanche una briciola del suo spirito combattivo è andata persa. Anche se cieco l’uomo intende riprendere in mano le redini della sua azienda. Ha sviluppato un prototipo destinato a rivoluzionare il mercato, la lampadina Hermantier di prodigiosa potenza.

A volte, però, volere non è potere. L’uomo deve arrendersi davanti ai suoi limiti e ancora una volta deve affidarsi ai suoi parenti, fidarsi di loro. Ma Hermantier è divorato dai dubbi, molte cose non tornano, in lui nasce il sospetto di essere la vittima di un complotto e le oscillazioni dei suoi stati d’animo complicano ogni cosa.

Nella sua villa in Vandea, luogo scelto per trascorrere un periodo di riposo, tutti sono con lui premurosi. Cristiane, Maxime e Hubert, fanno a gara nel viziarlo eppure lui è ossessionato dall’insicurezza, dall’angoscia e dalla paura. La sua mente partorisce folli fantasie anche perché la casa appare cambiata o sono i ricordi a essere mutati?

Fantasie di un uomo prigioniero dell’oscurità che davanti all’abisso scopre la sua vulnerabilità perché non riesce più a distinguere il falso dal vero, l’immaginazione dalla realtà. Si sente perso nei meandri di un labirinto.

Il mondo intorno a lui era come una scenografia marcescente, orribile. E ovunque esseri invisibili lo mostravano a dito.

Povero Hermentier! Così fiero della sua forza, del suo lavoro, del suo successo, ora si sente “come una larva che può essere schiacciata da un momento all’altro.”

Leggere “I volti dell’ombra” è vivere un incubo a occhi aperti, un incubo al quale il protagonista non riesce a sfuggire e noi con lui immergendoci in un labirinto senza via di fuga dove nulla è come appare. È facile immedesimarsi con Hermantier, provare le sue incertezze, sentirsi vittima di un complotto, reale o immaginario, che confonde i ruoli e le intenzioni. Si procede, capitolo dopo capitolo, in precario equilibrio sempre con le mani tese in avanti, l’udito attento, l’olfatto indagatore e il gusto pronto a carpire informazioni sul cibo che ci offrono. Così Hermantier, la cui autorità si è sgretolata dopo l’incidente, allerta i sensi minori sostituendoli alla vista persa. Saranno la sua guida per reinventare l’inafferrabile vastità del mondo esterno. 

“I volti dell’ombra” è un romanzo crudele costruito con un’atmosfera tesa e perturbante, è un viaggio tra i tranelli della mente e le paure di un uomo che deve ricostruire la sua vita decidendo se fidarsi dei propri cari. Ora non rimane che seguire il protagonista, affidarsi al suo intuito e giungere all’agghiacciante finale. Una luminosa rivelazione per noi che forse sapremo e per Hermantier perso tra realismo e allucinazione, risucchiato da sabbie mobili senza via di fuga.

martedì 5 settembre 2023

RECENSIONE | “Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino

Nella cinquina finalista del Premio Strega 2023 “Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino, edito da Feltrinelli, è sicuramente un romanzo che coinvolge emotivamente perché narra del conflitto in Bosnia negli anni Novanta. L’incipit ci porta direttamente a conoscere la crudeltà della guerra tra bambini orfani e orfanotrofi, separazioni ed esilio. 

STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 8
Mi limitavo ad amare te
Rosella Postorino

Editore: Feltrinelli
Pagine: 352
Prezzo: € 19,00
Sinossi

Si esiste interi solo prima di nascere. Ma quello strappo è la vita. Omar ha dieci anni e passa le giornate alla finestra sperando che sua madre torni: da troppi giorni non viene, e lui non sa più nemmeno se è viva. Suo fratello gli strofina il naso sulla guancia per fargli il solletico, ma non riesce a consolarlo. Senza la madre il mondo svapora. Solo Nada lo calma, tenendolo per mano: soltanto lei, con i suoi occhi celesti, è per Omar un desiderio. Ha undici anni, sulla fronte una vena che pulsa se qualcuno la fa arrabbiare, e un fratello, Ivo, grande abbastanza da essere arruolato. Nada e Omar sono bambini nella primavera del 1992, a Sarajevo. Per allontanarli dalla guerra, una mattina di luglio un pullman li porta via contro la loro volontà. Se la madre di Omar è ancora viva, come farà a ritrovarlo? E se Ivo morisse combattendo? In viaggio per l’Italia, lungo strade ridotte in macerie, Nada conosce Danilo, che ha mani calde e una famiglia, al contrario di lei, e che un giorno le fa una promessa. Nessuna infanzia è spensierata, ciascuno di noi porta con sé le sue ferite, ma anche quando ogni certezza sembra venire meno, possiamo trovare un punto fermo attorno al quale far girare tutto il resto. Mi limitavo ad amare te entra nelle fibre del lettore colpendo quel punto come una freccia. Ispirato a una storia vera, è un romanzo di ampio respiro, di formazione, di guerra e d’amore, che si colloca a pieno titolo nella tradizione del grande romanzo europeo.


Il bambino camminava appiccicato alla madre, tanto che lei si fermò e disse: «Perché mi stai addosso, non vedi che inciampiamo?»

Era più forte di lui. Aveva dieci anni, e da cinque viveva nel tormento della sua mancanza, passava la settimana alla finestra, in ginocchio su una sedia ad aspettare. Poi la madre arrivava e il bambino era peggio dei cani che non sanno stare al guinzaglio, sbuffava lei… Odorava di stufa a legna e capelli non lavati, anche se la stufa era spenta da oltre un mese; era lo stesso odore di quando dormivano insieme. Il bambino si serrò alla madre per respirarlo, e fu allora che il fragore esplose. Le finestre tremarono, i colombi si scagliarono in volo, la girandola girò verso e cadde dal vaso, ma il bambino non se ne accorse: una raffica d’aria lo strappò all’abbraccio scaraventandolo via.

Un collegio di suore accoglie i piccoli profughi scampati alle granate che colpiscono ogni cosa e chiunque perché tutto in guerra è considerato un obiettivo militare. Il romanzo segue la storia di alcuni bambini di Sarajevo, ospitati in Italia, poi dati in affido e adozione a famiglie, proseguendo il distacco anche a guerra finita. Bambini che crescono avendo in loro la struggente nostalgia per la famiglia, per la terra natia. Nessuno esce indenne da una guerra. Le macerie si rimuovono, la ricostruzione riparte ma le persone, specialmente i più piccoli, difficilmente ritorneranno alla normalità. Troppi gli orrori visti e subiti, le ferite psichiche non guariranno mai.

Rosella Postorino dà voce a questi bambini, intreccia le loro storie e fa suo e nostro il loro dolore. Ispirandosi a storie vere, pur dando spazio all’invenzione narrativa, l’autrice smuove le nostre coscienze e lo fa in modo stupendo, con un libro che segue, nell’arco di circa vent’anni, un gruppo di bambini e ragazzi. Queste sono le loro storie.

Nella primavera del 1992 a Sarajevo, assediata dai serbi, iniziava una guerra civile lunga e sanguinaria.

Omar e Senadin erano due fratelli musulmani che non avevano più notizie dei loro genitori. Omar aveva dieci anni e passava le  giornate alla finestra sperando nel ritorno di sua madre: da troppi giorni non andava più a trovarlo e lui non sapeva nemmeno se fosse ancora viva. Suo fratello cercava inutilmente di consolarlo. Solo Nada, undici anni e anche lei ospite dell’orfanotrofio di Bjelave, riusciva a calmarlo tenendolo per mano. Anche lei voleva disperatamente ritrovare sua madre. Nada aveva un fratello, Ivo, grande abbastanza per essere arruolato.

Per allontanarli dalla guerra, una mattina di luglio, un pullman li porta via contro la loro volontà. Se la madre di Omar è ancora viva, come farà a ritrovarlo? E se Ivo morisse combattendo, come farebbe Nada a saperlo? In viaggio per l’Italia, lungo strade ridotte in macerie, Nada (nome che significa “niente” in spagnolo e “speranza”in bosniaco) conosce Danilo, che ha mani calde e una famiglia costretta a separarsi perché il papà è serbo e la madre bosniaca. Prima della guerra i matrimoni misti non rappresentavano un problema. Diverse culture convivono pacificamente a Sarajevo. La mamma di Danilo, Azra, è una giornalista. Alcune pagine del suo diario verranno inserite dall’autrice tra un capitolo e l’altro per dar voce alle atrocità reali della guerra.

“Mi limitavo ad amare te” è una storia di guerra e di amore, di amicizia e speranza, paure e separazioni, violenza e tristezza. Grandi disperazioni e piccole gioie accompagnano i giovani protagonisti di questo romanzo. Mi è sembrato di entrare in una prigione ambulante mentre fuori infuriava la guerra, violenta e distruttiva. I bambini, strappati alle loro famiglie, vivono in un orfanotrofio a Sarajevo. I più fortunati ricevono, quando è possibile , una visita dalla mamma, ma tutto è basato su un labile equilibrio che caratterizza le dinamiche delle loro relazioni. I fratelli più grandi e i papà sono chiamati a combattere. Tutto intorno regna sovrana la violenza, mappata nel DNA dell’uomo, anche se qualche raro fiore del “buon cuore” ancora sboccia. La violenza, la forza che sottomette gli uomini, sembra avere vita propria che sottomette carnefici e vittime. Alla fine però tutti sono delle vittime, i bambini in primis. Separati dalle loro famiglie, costretti a crescere in fretta in una città assediata dove i cecchini giocavano a fare Dio. Sarajevo rappresentava il sogno di una città multietnica e ciò, per qualcuno, era un male da debellare. Di quegli anni l’unica verità, che i bambini porteranno nei loro cuori come intime memorie, saranno i morti, le donne abusate, torturate e uccise, gli uomini costretti a una guerra che non avevano voluto. Negli occhi di tutti rimarrà la morte, non solo quella fisica ma anche quella  dello spirito, perché hanno l’impressione di non avere nulla in sé né davanti a sé. Omar, Nada e Danilo rappresentano tutti i bambini costretti dalla guerra a diventare dei profughi in terre lontane ed estranee, senza alcuna certezza del ritorno. Folle è l’uomo che vuol spazzar via le radici di un popolo! Il dolore del singolo diventa il dolore di una comunità perché solo nell’altro c’è una possibilità di salvezza. Anche in Italia i tre protagonisti si sentono come in una prigione, una prigione fatta d’amore che vorrebbe donar loro un po’ di felicità.

Una volta Ivo le aveva detto: Quest’idea che ci hanno inculcato, di dover essere felici, è un castigo. Chi ce l’ha inculcata?, aveva chiesto Nada. Sei figlio di una prostituta, sei scappato da una guerra, ma chi ti ha inculcato a te l’idea di dover essere felice? Aveva riso anche lui. Boh, un certo cinema, aveva detto, certe storie. E quella cazzo di Costituzione americana. Lei si era piegata in due dalle risate. Non abitiamo in America, gli aveva risposto.

“Mi limitavo ad amare te” è un romanzo di formazione ma anche una parabola di morte interiore che ruota intorno agli affetti e ai legami forti, a cosa vuol dire essere figli e genitori, si fa portavoce di sentimenti profondi e speranze che volano sulle ali del tempo. Ogni pagina regala un tassello per formare l’immagine di copertina, due mani forti e sicure che accarezzano un volto di bambino, fragile di fronte alla violenza della storia. Bambini costretti a sfidare la morte ogni giorno.

Anche oggi il mondo è in guerra, il conflitto bussa alle nostre porte, c’è la minaccia nucleare che sottrae valore alla vita srotolando il filo rosso della paura. Il romanzo, alla fine, emana una tenue luce di speranza che spero, con tutto il cuore, illumini la mente di chi pensa ancora che la guerra risolva ogni cosa.

“Mi limitavo ad amare te” è il verso di una poesia di Izet Sarajlic, poeta bosniaco  che rimase a Sarajevo durante la guerra dando voce al silenzio della follia della guerra. Parla anche d’amore Izet Sarajlic, nelle sue poesie ci dice che l’amore non ha bisogno delle ali per volare quando si hanno le mani per abbracciare la persona amata. L’autrice gli rende omaggio e nel romanzo c’è l’eco delle poesie di Sarajlic: la guerra non potrà mai annullare i sentimenti che ci proteggono e ci tengono per mano in un legame viscerale tra gioia e dolore che è impossibile recidere. In una sua poesia, “Cerco una strada per il mio nome”, Sarajlic scrive:

Passeggio per la città della nostra giovinezza

E cerco una strada per il mio nome.

Le strade ampie, rumorose le lascio ai grandi della storia.

Cosa stavo facendo mentre si faceva la storia?

Semplicemente ti amavo…

Quando gli eventi ti travolgono, quando non puoi fermare la Storia, l’unica cosa che gli esseri umani possono fare è amare e aggrapparsi alle relazioni che hanno. Omar, Nada, Danilo ma anche i loro fratelli, i genitori, i genitori adottivi si aggrappano a questo amore. La frase “Che cosa facevo io mentre durava la Storia? Mi limitavo ad amare te.” la possono dire tutti i protagonisti di questo libro nella certezza che la separazione fa parte dell’atto stesso della nascita e che “si esiste interi solo prima di nascere. Ma quello strappo è la vita.” Uno strappo che porta lontano, per terre sconosciute, tra gente che non parla la tua lingua e che può sbagliare ma sempre in buona fede perché anche le migliori intenzioni possono avere  conseguenze negative. I nodi del passato non svaniscono nel nulla ma tutti devono provare a cercare il proprio posto nel mondo. Il finale della poesia di Izet Sarajlic:

La cosa più importante è questa/che nella strada col mio nome/mai a nessuno tocchi una disgrazia.

È un inno alla speranza che oggi, purtroppo, si è nuovamente frantumata in nuovi conflitti. Allora con il filo invisibile dell’amore cerchiamo tutti insieme di tessere la parola PACE in un mondo senza alcuna pietà.