martedì 5 settembre 2023

RECENSIONE | “Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino

Nella cinquina finalista del Premio Strega 2023 “Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino, edito da Feltrinelli, è sicuramente un romanzo che coinvolge emotivamente perché narra del conflitto in Bosnia negli anni Novanta. L’incipit ci porta direttamente a conoscere la crudeltà della guerra tra bambini orfani e orfanotrofi, separazioni ed esilio. 

STILE: 8 | STORIA: 9 | COVER: 8
Mi limitavo ad amare te
Rosella Postorino

Editore: Feltrinelli
Pagine: 352
Prezzo: € 19,00
Sinossi

Si esiste interi solo prima di nascere. Ma quello strappo è la vita. Omar ha dieci anni e passa le giornate alla finestra sperando che sua madre torni: da troppi giorni non viene, e lui non sa più nemmeno se è viva. Suo fratello gli strofina il naso sulla guancia per fargli il solletico, ma non riesce a consolarlo. Senza la madre il mondo svapora. Solo Nada lo calma, tenendolo per mano: soltanto lei, con i suoi occhi celesti, è per Omar un desiderio. Ha undici anni, sulla fronte una vena che pulsa se qualcuno la fa arrabbiare, e un fratello, Ivo, grande abbastanza da essere arruolato. Nada e Omar sono bambini nella primavera del 1992, a Sarajevo. Per allontanarli dalla guerra, una mattina di luglio un pullman li porta via contro la loro volontà. Se la madre di Omar è ancora viva, come farà a ritrovarlo? E se Ivo morisse combattendo? In viaggio per l’Italia, lungo strade ridotte in macerie, Nada conosce Danilo, che ha mani calde e una famiglia, al contrario di lei, e che un giorno le fa una promessa. Nessuna infanzia è spensierata, ciascuno di noi porta con sé le sue ferite, ma anche quando ogni certezza sembra venire meno, possiamo trovare un punto fermo attorno al quale far girare tutto il resto. Mi limitavo ad amare te entra nelle fibre del lettore colpendo quel punto come una freccia. Ispirato a una storia vera, è un romanzo di ampio respiro, di formazione, di guerra e d’amore, che si colloca a pieno titolo nella tradizione del grande romanzo europeo.


Il bambino camminava appiccicato alla madre, tanto che lei si fermò e disse: «Perché mi stai addosso, non vedi che inciampiamo?»

Era più forte di lui. Aveva dieci anni, e da cinque viveva nel tormento della sua mancanza, passava la settimana alla finestra, in ginocchio su una sedia ad aspettare. Poi la madre arrivava e il bambino era peggio dei cani che non sanno stare al guinzaglio, sbuffava lei… Odorava di stufa a legna e capelli non lavati, anche se la stufa era spenta da oltre un mese; era lo stesso odore di quando dormivano insieme. Il bambino si serrò alla madre per respirarlo, e fu allora che il fragore esplose. Le finestre tremarono, i colombi si scagliarono in volo, la girandola girò verso e cadde dal vaso, ma il bambino non se ne accorse: una raffica d’aria lo strappò all’abbraccio scaraventandolo via.

Un collegio di suore accoglie i piccoli profughi scampati alle granate che colpiscono ogni cosa e chiunque perché tutto in guerra è considerato un obiettivo militare. Il romanzo segue la storia di alcuni bambini di Sarajevo, ospitati in Italia, poi dati in affido e adozione a famiglie, proseguendo il distacco anche a guerra finita. Bambini che crescono avendo in loro la struggente nostalgia per la famiglia, per la terra natia. Nessuno esce indenne da una guerra. Le macerie si rimuovono, la ricostruzione riparte ma le persone, specialmente i più piccoli, difficilmente ritorneranno alla normalità. Troppi gli orrori visti e subiti, le ferite psichiche non guariranno mai.

Rosella Postorino dà voce a questi bambini, intreccia le loro storie e fa suo e nostro il loro dolore. Ispirandosi a storie vere, pur dando spazio all’invenzione narrativa, l’autrice smuove le nostre coscienze e lo fa in modo stupendo, con un libro che segue, nell’arco di circa vent’anni, un gruppo di bambini e ragazzi. Queste sono le loro storie.

Nella primavera del 1992 a Sarajevo, assediata dai serbi, iniziava una guerra civile lunga e sanguinaria.

Omar e Senadin erano due fratelli musulmani che non avevano più notizie dei loro genitori. Omar aveva dieci anni e passava le  giornate alla finestra sperando nel ritorno di sua madre: da troppi giorni non andava più a trovarlo e lui non sapeva nemmeno se fosse ancora viva. Suo fratello cercava inutilmente di consolarlo. Solo Nada, undici anni e anche lei ospite dell’orfanotrofio di Bjelave, riusciva a calmarlo tenendolo per mano. Anche lei voleva disperatamente ritrovare sua madre. Nada aveva un fratello, Ivo, grande abbastanza per essere arruolato.

Per allontanarli dalla guerra, una mattina di luglio, un pullman li porta via contro la loro volontà. Se la madre di Omar è ancora viva, come farà a ritrovarlo? E se Ivo morisse combattendo, come farebbe Nada a saperlo? In viaggio per l’Italia, lungo strade ridotte in macerie, Nada (nome che significa “niente” in spagnolo e “speranza”in bosniaco) conosce Danilo, che ha mani calde e una famiglia costretta a separarsi perché il papà è serbo e la madre bosniaca. Prima della guerra i matrimoni misti non rappresentavano un problema. Diverse culture convivono pacificamente a Sarajevo. La mamma di Danilo, Azra, è una giornalista. Alcune pagine del suo diario verranno inserite dall’autrice tra un capitolo e l’altro per dar voce alle atrocità reali della guerra.

“Mi limitavo ad amare te” è una storia di guerra e di amore, di amicizia e speranza, paure e separazioni, violenza e tristezza. Grandi disperazioni e piccole gioie accompagnano i giovani protagonisti di questo romanzo. Mi è sembrato di entrare in una prigione ambulante mentre fuori infuriava la guerra, violenta e distruttiva. I bambini, strappati alle loro famiglie, vivono in un orfanotrofio a Sarajevo. I più fortunati ricevono, quando è possibile , una visita dalla mamma, ma tutto è basato su un labile equilibrio che caratterizza le dinamiche delle loro relazioni. I fratelli più grandi e i papà sono chiamati a combattere. Tutto intorno regna sovrana la violenza, mappata nel DNA dell’uomo, anche se qualche raro fiore del “buon cuore” ancora sboccia. La violenza, la forza che sottomette gli uomini, sembra avere vita propria che sottomette carnefici e vittime. Alla fine però tutti sono delle vittime, i bambini in primis. Separati dalle loro famiglie, costretti a crescere in fretta in una città assediata dove i cecchini giocavano a fare Dio. Sarajevo rappresentava il sogno di una città multietnica e ciò, per qualcuno, era un male da debellare. Di quegli anni l’unica verità, che i bambini porteranno nei loro cuori come intime memorie, saranno i morti, le donne abusate, torturate e uccise, gli uomini costretti a una guerra che non avevano voluto. Negli occhi di tutti rimarrà la morte, non solo quella fisica ma anche quella  dello spirito, perché hanno l’impressione di non avere nulla in sé né davanti a sé. Omar, Nada e Danilo rappresentano tutti i bambini costretti dalla guerra a diventare dei profughi in terre lontane ed estranee, senza alcuna certezza del ritorno. Folle è l’uomo che vuol spazzar via le radici di un popolo! Il dolore del singolo diventa il dolore di una comunità perché solo nell’altro c’è una possibilità di salvezza. Anche in Italia i tre protagonisti si sentono come in una prigione, una prigione fatta d’amore che vorrebbe donar loro un po’ di felicità.

Una volta Ivo le aveva detto: Quest’idea che ci hanno inculcato, di dover essere felici, è un castigo. Chi ce l’ha inculcata?, aveva chiesto Nada. Sei figlio di una prostituta, sei scappato da una guerra, ma chi ti ha inculcato a te l’idea di dover essere felice? Aveva riso anche lui. Boh, un certo cinema, aveva detto, certe storie. E quella cazzo di Costituzione americana. Lei si era piegata in due dalle risate. Non abitiamo in America, gli aveva risposto.

“Mi limitavo ad amare te” è un romanzo di formazione ma anche una parabola di morte interiore che ruota intorno agli affetti e ai legami forti, a cosa vuol dire essere figli e genitori, si fa portavoce di sentimenti profondi e speranze che volano sulle ali del tempo. Ogni pagina regala un tassello per formare l’immagine di copertina, due mani forti e sicure che accarezzano un volto di bambino, fragile di fronte alla violenza della storia. Bambini costretti a sfidare la morte ogni giorno.

Anche oggi il mondo è in guerra, il conflitto bussa alle nostre porte, c’è la minaccia nucleare che sottrae valore alla vita srotolando il filo rosso della paura. Il romanzo, alla fine, emana una tenue luce di speranza che spero, con tutto il cuore, illumini la mente di chi pensa ancora che la guerra risolva ogni cosa.

“Mi limitavo ad amare te” è il verso di una poesia di Izet Sarajlic, poeta bosniaco  che rimase a Sarajevo durante la guerra dando voce al silenzio della follia della guerra. Parla anche d’amore Izet Sarajlic, nelle sue poesie ci dice che l’amore non ha bisogno delle ali per volare quando si hanno le mani per abbracciare la persona amata. L’autrice gli rende omaggio e nel romanzo c’è l’eco delle poesie di Sarajlic: la guerra non potrà mai annullare i sentimenti che ci proteggono e ci tengono per mano in un legame viscerale tra gioia e dolore che è impossibile recidere. In una sua poesia, “Cerco una strada per il mio nome”, Sarajlic scrive:

Passeggio per la città della nostra giovinezza

E cerco una strada per il mio nome.

Le strade ampie, rumorose le lascio ai grandi della storia.

Cosa stavo facendo mentre si faceva la storia?

Semplicemente ti amavo…

Quando gli eventi ti travolgono, quando non puoi fermare la Storia, l’unica cosa che gli esseri umani possono fare è amare e aggrapparsi alle relazioni che hanno. Omar, Nada, Danilo ma anche i loro fratelli, i genitori, i genitori adottivi si aggrappano a questo amore. La frase “Che cosa facevo io mentre durava la Storia? Mi limitavo ad amare te.” la possono dire tutti i protagonisti di questo libro nella certezza che la separazione fa parte dell’atto stesso della nascita e che “si esiste interi solo prima di nascere. Ma quello strappo è la vita.” Uno strappo che porta lontano, per terre sconosciute, tra gente che non parla la tua lingua e che può sbagliare ma sempre in buona fede perché anche le migliori intenzioni possono avere  conseguenze negative. I nodi del passato non svaniscono nel nulla ma tutti devono provare a cercare il proprio posto nel mondo. Il finale della poesia di Izet Sarajlic:

La cosa più importante è questa/che nella strada col mio nome/mai a nessuno tocchi una disgrazia.

È un inno alla speranza che oggi, purtroppo, si è nuovamente frantumata in nuovi conflitti. Allora con il filo invisibile dell’amore cerchiamo tutti insieme di tessere la parola PACE in un mondo senza alcuna pietà.

6 commenti:

  1. Ciao Aquila, ho già letto in passato un romanzo di questa autrice ("Le assaggiatrici") e l'avevo trovato molto interessante, seppur un po' lento in alcuni passaggi. Questa storia sembra davvero intensa e tratta di un argomento che, nonostante la sua tragicità, sarebbe interessante approfondire...

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    1. Ciao Ariel, ho letto molte recensioni positive su "Le assaggiatrici" e sicuramente leggerò questo romanzo. Mi incuriosisce molto anche "L'estate che perdemmo Dio" ambientato durante la guerra di 'ndrangheta degli anni ottanta. Un caro saluto:)

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  2. Questa copertina l'ho vista tante volte in vari siti di e-commerce, un bianco e nero molto suggestivo, ma non mi sono mai soffermata a leggere la sinossi.
    Sembra una storia cruda, triste, molto dolorosa.

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    1. Ciao Fra, hai perfettamente ragione quando scrivi che "Mi limitavo ad amare te" è una storia dura e dolorosa. A noi lettori comprendere come le guerre non risparmiano nessuno e anche se si sopravvive, occorre affrontare difficoltà esistenziali profonde. Un caro saluto:)

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  3. ciao Aquila, si comprende dalle tue parole come sia un libro intenso ed emotivamente coinvolgente; credo potrebbe piacermi e la tua recensione me lo conferma!

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    1. Ciao Angela, sono sicura che apprezzeresti molto questo romanzo perché sei una persona sempre attenta alle problematiche di una società che vede ancora nella guerra una soluzione. La tua sensibilità ti offre una chiave di lettura adeguata per una storia che emoziona e fa riflettere. Un caro saluto :)

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