giovedì 27 marzo 2014

RECENSIONE "Piccole storie oscure" di Tina Caramanico


A volte succede di leggere un libro e continuare a rifletterci su anche quando si è giunti all’ultima pagina. Per una lettrice, come me, appassionata di thriller, il finale è fondamentale per decretare il successo o meno di un romanzo. Ma se il finale non c’è? 
Se il finale è aperto alle riflessioni e considerazioni personali?
Allora succede di diventare parte attiva del romanzo interagendo con la storia e con i personaggi. E’ questo ciò che ho provato leggendo  
“Piccole Storie Oscure” di Tina Caramanico,   
Editore Zerounoundici.


Autrice: Tina Caramanico


Genere: Narrativa


Editore: Zerounoundici

Pagine: 120 p.

Prezzo: €13,70

Trama: 
Tra horror e noir, in queste piccole storie oscure (alcune del tutto inedite, altre reduci da premi letterari e contest sul web) conoscerete vittime decisamente pericolose, morti che parlano, mostri apparentemente innocui e feroci assassini che ci somigliano forse troppo.





STILE: 8
STORIA: 8
COPERTINA: 7




Questo libro è costituito da brevi racconti che hanno un denominatore comune: sembrano vere!
Ogni storia ha un ritmo serrato, niente preamboli, nessuna perdita di tempo. L’autrice entra subito nel vivo degli avvenimenti, non c’è alcuna presentazione dei personaggi, le ambientazioni sono prive di descrizioni. La parola è diretta, tagliente e penetrante come un bisturi emozionale che segna la cute di vittime e carnefici. 
Ma attenzione, i ruoli non sono così netti a volte il carnefice non è colui che compie l’azione delittuosa perché dietro a ogni folle gesto c’è un perché. Nessuna giustificazione, solo un’analisi spietata di una società che indossa una maschera per celare l’orrore dei suoi comportamenti. Leggendo i racconti mi è sembrato di assistere a una pioggia di meteoriti che lasciano un segno ben evidente del loro passaggio. La scrittrice ci mette un attimo a catturare l’attenzione del lettore: tra le pagine di questo libro potrete trovare morti che parlano, vittime pericolose, uomini e donne dall’aria apparentemente normale ma che in realtà sono feroci assassini. Tutti hanno una caratteristica che gela il sangue: ci somigliano. 
Tina Caramanico ha scritto queste 12 storie in modo accattivante attirando il lettore nella sua ragnatela realizzata tessendo mistero, horror, suspance e colpi di scena. Tutto è racchiuso in 12 “schegge” che vi lasceranno senza fiato, vi sorprenderanno. Senza alcun preavviso vi ritroverete completamente coinvolte in un continuum emozionale alla scoperta del lato oscuro dell’uomo. Nei racconti il reale si mescola al fantastico, al macabro, in modo appassionante e imprevedibile. Il risultato è un piccolo, grande, libro affascinante e irresistibile per gli amanti del noir. La scrittrice,  dalla penna affilata, ci mostra come il confine tra la realtà e la finzione è molto labile. E’ sottile e non identificabile con precisione. Attenti, quindi, non sottovalutate mai il lato oscuro presente in ognuno di noi.
Vi riporto alcune citazioni “Oscure” che mi hanno fatto venire i brividi:
Dal racconto “Io ti conosco”:
“Madre, io ti conosco. Perché dal tuo sangue più oscuro fui generata e perché, per me ancora non nata, il ritmo del tuo cuore è stato voce misteriosa di ogni alterità, musica dell’universo. Madre, io ti conosco. Mi hai tenuta nascosta per vent’anni, coperta, negata, custodita, morta e non silenziosa, dentro una culla di legno di cedro, dentro l’utero assurdo di un armadio…Sono morta a tre anni…”
Dal racconto “Voci”:
“Stanotte i morti vengono, a incontrare le streghe. Stanotte i morti parlano, raccontano i segreti. Stanotte i bimbi mangiano dolcetti avvelenati. Saranno i bimbi morti a vendicare i torti”.
“Piccole Storie Oscure” è un libro consigliato a chi vuol provare sensazioni forti. La scrittrice, con maestria, tiene in ostaggio il lettore fino all’ultima pagina. Strano a dirsi ma, in questo caso, mi è piaciuto vestire il ruolo di “ostaggio”.

sabato 22 marzo 2014

Il sabato del sondaggio #27


"Il sabato del sondaggio" è una rubrica settimanale creata da me appositamente per il blog Penna d'oro. 
Ogni sabato elaborerò delle domande per scambiare, con voi lettori, opinioni, pareri, 
consigli su temi che riguardano il mondo dei libri.

Cari lettori,

Cosa ne pensate della scaramanzia? 
Se un gatto nero vi attraversa la strada, come vi comportate? Passate a cuor leggero sotto una scala? 
Essere 13 a tavola vi lascia indifferenti? 
Se versate l’olio o il sale fate subito strani gesti scaramantici?


Anche i nostri amati scrittori avevano dei “rituali di scrittura”:
Si dice che Shakespeare non correggesse mai e non usasse la punteggiatura per non dover interrompere il flusso.
Charles Dickens scriveva 55 parole al giorno (anche 4000 parole nei giorni più fecondi).
Sthendhal dettò “La Certosa di Parma”, 560 pagine, in meno di 52 giorni.
Lev Tolstoj spese 6 anni per scrivere “Guerra e Pace”; la moglie Sonja ricopiava ogni pagina in bella copia.
Tolkien scrisse “Il signore degli anelli” in 12 anni, usando il retro dei fogli dove i suoi studenti facevano i compiti.
John Cheever scrisse parte della sua opera in mutande, dopo aver raggiunto vestito di tutto punto in ascensore la cantina ed essersi nuovamente spogliato. Questo rituale era importante per non perdere l’ispirazione.
George Simenon, prima d’usare la macchina da scrivere, si preparava al lavoro appuntando 50 matite che allineava sulla scrivania, e se si spezzava la punta ad una cambiava subito matita senza perder tempo.
Marcel Proust scriveva sempre a letto tra le pareti ricoperte di sughero. Si svegliava tra le tre e le sei del pomeriggio.
Anche Moravia scrisse “Gli Indifferenti” a letto, ma perché era convalescente di una malattia alle ossa.
Émile Zola amava scrivere con la luce artificiale e oscurava la stanza con le tende anche quando scriveva di giorno.
Honoré de Balzac beveva, per restar sveglio, 50 tazze di caffè al giorno.
Thomas Hardy levava le scarpe o le pantofole.
Colette prima di mettersi a scrivere cercava almeno una pulce da levare ad uno dei suoi gatti.
John Keats si lavava simbolicamente le mani usando qualunque liquido, oltre l’acqua, come, ad es., il caffè.
Mark Twain indossava una camicia bianca prima di sedere al tavolo di lavoro.
Ernest Heminguway amava scrivere sui quadernetti di Moleskine.
Per superstizione:
George Orwell non proseguiva quel che stava scrivendo se non ne parlava con la moglie.
Gabriele D’Annunzio, invece, anche se si sospetta sia una sua invenzione, iniziò a scrivere la poesia “Le stirpi canore” su una giarrettiera d’una prostituta analfabeta.
Woddy Allen lavora su fogli rigorosamente gialli; 
Dumas, padre, scriveva le poesie su fogli gialli, i saggi su fogli rosa e narrativa su fogli azzurri.
Emily Dickinson doveva appuntare le prime stesure delle sue poesie su pezzi qualsiasi di carta ( liste della spesa, scontrini, ricevute, buste da lettera usate) perché i fogli bianchi quasi la intimorivano.
Isabel Allende non inizia mai un nuovo lavoro in un giorno diverso dall’8 gennaio.
Andrea Camilleri prima di scrivere, ogni mattina, si veste di tutto punto e si rade per bene come se dovesse uscire.
Truman Capote non iniziava e non terminava mai un libro di venerdì, cambiava stanza d’albergo se il suo telefono aveva il numero tredici, non lasciava mai più di tre mozziconi nel posacenere.

La superstizione è sempre stata compagna dell’uomo in tutti i tempi. Mi piacerebbe conoscere il vostro parere in proposito e vi saluto con questa frase di Paul Valéry:
“L’ingegno può coesistere con le superstizioni più grossolane”.

mercoledì 19 marzo 2014

RECENSIONE "Quando dal cielo cadevano le stelle" di Sofia Domino


Il male di Auschwitz ha contaminato gli uomini e si è diffuso come una pestilenza. Se non lo si fronteggia subito il contagio diventa inarrestabile. Primo Levi
Storia di una trasformazione:
1920. Mussolini, dalle colonne del Popolo d’Italia, dichiara:

“In Italia non si fa assolutamente nessuna differenza fra ebrei e non ebrei; in tutti i campi, dalla religione, alla politica, alle armi, all’economia…la nuova Sionne, gli ebrei italiani, l’hanno qui, in questa nostra adorabile terra”.


Maggio 1938: Adolf Hitler si reca in visita a Roma.

14 Luglio 1938: si ha l’avvio della campagna razzista del fascismo italiano. Viene pubblicato il “Manifesto della Razza”.

“La razza italiana è prettamente ariana, e va difesa da contaminazioni”.

“Gli ebrei sono estranei e pericolosi per il popolo italiano”.

5 Settembre 1938: furono emanate le prime leggi razziali contro gli ebrei. Essi furono esclusi da tutte le scuole, ebbero il divieto di possedere terreni e fabbricati, di lavorare negli Enti pubblici, di aver rapporti di lavoro con gli altri italiani…

1943. Dopo la caduta del fascismo, i Tedeschi, rastrellarono nel ghetto ebraico di Roma 1023 ebrei italiani. Donne, anziani, bambini, uomini, furono stipati in carri bestiami e portati ad Auschwitz: l’inferno sulla Terra. Tornarono in 17.

Anche l’Italia china il capo davanti al volere del Fuhrer, tutti diventano ariani, tutti contro gli Ebrei, tutti artefici di un’ignominia. Oggi le giovani generazioni guardano al passato con apprensione, ed è confortante vedere l’impegno di coloro che si adoperano per non dimenticare lo sterminio non solo del popolo Ebreo ma di tutti coloro che non erano considerati all’altezza della razza ariana.


“Quando dal cielo cadevano le stelle” di Sofia Domino 
è una struggente ricostruzione di quel periodo storico attraverso la storia di Lia Urovitz e della sua famiglia. 





Autrice: Sofia Domino


Genere: Narrativa


Editore: Autopubblicato

Pagine: 495 p.
Prezzo: € 1,99

Trama: Lia ha tredici anni. È una ragazzina italiana piena di sogni e di allegria, con l’unica colpa di essere ebrea durante la Seconda Guerra Mondiale. Dallo scoppio delle leggi razziali la sua vita cambia, e con la sua famiglia è costretta a rifugiarsi in numerosi nascondigli, a sparire dal mondo. Da quel mondo di cui vuole fare disperatamente parte. D’improvviso i nazisti arrivano in Italia e ha inizio la caccia agli ebrei. Tra lacrime, risate, primi amori e sogni, la vita di Lia va avanti, ma tutto crolla quando, il 16 ottobre 1943, la Gestapo rastrella il ghetto ebraico di Roma e lei viene catturata con la sua famiglia. Destinazione Auschwitz. Freddo, fame, morte, malattie… ma nessuno potrà fermare i sogni di Lia, di una ragazzina ebrea, di una ragazzina che vuole tornare a essere libera.


STILE: 8
STORIA: 8
COPERTINA: 7



Lia è una ragazzina ebrea, ha 13 anni ed è costretta a vivere in una buia cantina per sfuggire ai fascisti. La famiglia Urovitz è composta da papà Daniele, da mamma Giuditta, da nonna Myriam, da Lia e dai suoi fratelli Chalom e Tommaso. Sono Ebrei, devono nascondersi, devono diventare invisibili agli occhi dei loro persecutori. Così, una buia cantina diventa il loro nascondiglio. Sono aiutati dai coniugi Parisi e da altri amici di buona volontà. Nel rifugio le giornate trascorrono lente e si vive nella continua paura di esser scoperti. L’angoscia di ciò che potrebbe accadere rende tutti nervosi, demotivati tranne Myriam e Lia. La nonna mi è subito piaciuta perché mostra  la saggezza tipica delle persone che hanno fatto tesoro della loro esistenza. Dispensa consigli, cerca di mitigare le situazioni in cui si creano contrasti tra i ragazzi e i loro genitori,  spera nella fine della guerra per tornare finalmente a vivere in pace. Lia cerca di dare una parvenza di normalità alle sue giornate: studia, aiuta la mamma  nei lavori domestici e nella preparazione dei miseri pranzi e delle, ancor più misere, cene. Ma, questa ragazzina ama la vita, guarda con occhi sognanti quella botola che la divide e la protegge dalla dura realtà e sogna. Sogna il futuro, vorrebbe diventare un medico per aiutare le persone e viaggiare, anela a esser parte attiva di quella stessa società che oggi la disprezza e la considera “un pericolo da eliminare”. La situazione precipita quando i rastrellamenti si fanno più serrati. Lia e i suoi cari iniziano un pellegrinaggio che li porterà in vari nascondigli e saranno costretti a ritornare alla loro abitazione proprio all’alba del 16 ottobre 1943 quando la comunità ebraica, del ghetto di Roma, viene rastrellata dalla Gestapo. Gli Urivitz saranno deportati ad Auschwitz. In tutto saranno 1023 ebrei italiani a finire nei campi di concentramento. Tornarono in 17.

Nel campo di concentramento di Auschwitz inizia la lenta agonia di tutti i deportati privati di ogni cosa e costretti a subire violenze alla persona e alla dignità. Ho letto queste pagine provando un vivo dolore, non è facile ripercorrere le torture subite dai prigionieri nei campi di sterminio. Non è facile accompagnare con lo sguardo da lettore i bambini, gli anziani, le donne, tutti coloro che erano inabili al lavoro, attraverso i bui e stretti corridoi che conducevano “alle docce”. Non vi descrivo gli orrori ma vi vorrei parlare della “fiducia”, “della speranza” che Lia continua a provare in cuor suo. Naturalmente mi direte: “Speranza nei lager tedeschi?” Si, cari amici, Speranza. Ed è proprio questo il messaggio che si evince tra le righe del romanzo che veste i panni di una vera e propria ricostruzione storica. Tra queste pagine si ha un intreccio perfetto tra la parte storica reale e  il personaggio di Lia, emblema di tutti coloro che subirono la deportazione. Con un linguaggio forte, a volte necessariamente crudele, Sofia Domino ripercorre il dramma  dei prigionieri. Esperienze sconvolgenti vengono narrate per ricordare come nei lager si perdeva la dignità di essere uomini, la capacità di pensare, la memoria di sé. La parola “annientamento” assume un duplice significato: nel lager non solo si annienta l’uomo fisicamente, ma, prima che muoia, si annientano tutte le sue caratteristiche umane.
Lia affronterà la prigionia alternando momenti di rabbia e ribellione, con momenti di disarmante ingenuità senza mai perdere la speranza. I puri di cuore non conoscono confini, i puri di cuore non moriranno mai fino a quando si avrà memoria del loro sacrificio. Riflettiamo, cari lettori, riflettiamo quando ci lamentiamo nelle nostre case, con gli amici, in piena libertà. Quando non siamo mai contenti di nulla.

Leggendo “Quando dal cielo cadevano le stelle” ho ammirato il lavoro di ricerca e di studio condotto per realizzare questo libro.

La scrittrice si è posta di fronte alla Storia e con fedele e scientifica ricostruzione del passato, ci ha narrato la vita, le emozioni, le ingiustizie, i pensieri di coloro che hanno subito la violenza disumana e la sopraffazione infinita dei lager. Ho ammirato molto l’impegno di Rebecca e Sofia Domino che con i loro romanzi sull’Olocausto hanno voluto ricordarci queste esperienze dolorose. Spesso è necessario “ricordare” per poter apprezzare ciò che di positivo viviamo quotidianamente e che a volte non sappiamo riconoscere.
Vorrei concludere questa recensione-riflessione con un’immagine:
Lia ora è libera, finalmente può sognare, amare, vivere. Lia  è libera di oltrepassare il cancello di Auschwitz. Lia  è libera di salire su per una scala infinita i cui pioli sono formati dall’amore, dall’amicizia, dal rispetto, dalla libertà, dalla voglia di vivere, dal desiderio di realizzare i propri sogni, dalla fiducia. Sale sempre più su Lia e  raggiunge la volta celeste per riportarvi l’astro della speranza affinché dal cielo non cadano più le stelle.

venerdì 14 marzo 2014

RECENSIONE "La mia amica ebrea" di Rebecca Domino


“L’Olocausto è una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria”. Primo Levi


Salve, cari lettori.

Prima di parlar di libri, vorrei ricordare con voi alcune date importanti che hanno segnato il cammino dell’uomo verso la seconda Guerra Mondiale.

Nel 1919, in Germania , nasce il nazionalsocialismo, movimento politico di estrema destra.

Nel 1920, per opera di Hitler, il movimento si trasforma in partito.

Nel 1933, Hitler ottiene la carica di cancelliere e instaura un regime dittatoriale assumendo i pieni poteri.

Si fa chiamare Fuhrer (guida, duce) e inizia a porre in atto ciò che si è proposto nel suo libro Mein Kampf (La mia battaglia): sopprimere gli altri partiti, perseguitare gli Ebrei e tuti coloro che non appartengono alla razza ariana. Ha inizio la conquista dello “spazio vitale” per il popolo tedesco.
Nel 1935, con le Leggi di Norimberga, proclama  gli Ebrei razza inferiore e inizia la loro persecuzione ufficiale. Tuttavia per salvare la razza umana da qualsiasi indebolimento bisognava eliminare ogni possibile elemento di debolezza: Zingari (Rom), disabili, omosessuali, i Polacchi, i prigionieri di guerra  sovietici, gli Afro-Tedeschi.


Con l’inizio della seconda Guerra Mondiale, attua con ferocia il piano di “sterminio totale” degli Ebrei. Il seme della violenza e dell’odio verso tutti coloro che erano ritenuti “Una Nullità” e non meritavano di vivere, divenne realtà nei Lager. Tutti noi sappiamo dove portarono queste idee.. La Germania e gli Ebrei. La Perfezione e la Nullità.

Per non dimenticare queste pagine buie della Storia dell’Umanità ho letto, con molto interesse, due libri che trattano il tema dell’Olocausto. Oggi vorrei parlarvi del primo libro in questione:
La mia amica ebrea” di Rebecca Domino.



Autrice: Rebecca Domino

Genere: Narrativa

Editore: Autopubblicato
Pagine: 300 p.
Prezzo: € 1,99

Trama:  
Amburgo, 1943. La vita di Josepha, quindici anni, trascorre fra le uscite con le amiche, le lezioni e i sogni, nonostante la Seconda Guerra Mondiale. Le cose cambiano quando suo padre decide di nascondere in soffitta una famiglia di ebrei. Fra loro c'è Rina, quindici anni, grandi e profondi occhi scuri.
Nella Germania nazista, giorno dopo giorno sboccia una delicata amicizia fra una ragazzina ariana, che è cresciuta con la propaganda di Hitler, e una ragazzina ebrea, che si sta nascondendo a quello che sembra essere il destino di tutta la sua gente.  Ma quando Josepha dovrà rinunciare improvvisamente alla sua casa e dovrà lottare per continuare a sperare e per cercare di proteggere Rina, l'unione fra le due ragazzine, in un Amburgo martoriata dalle bombe e dalla paura, continuerà a riempire i loro cuori di speranza.
Un romanzo che accende i riflettori su uno dei lati meno conosciuti dell'Olocausto, la voce degli "eroi silenziosi", uomini, donne e giovani che hanno aiutato gli ebrei in uno dei periodi più bui della Storia.




STILE: 7
STORIA: 8
COPERTINA: 7





Seconda Guerra Mondiale. Amburgo, 1943.

Siamo in Germania, la persecuzione contro gli Ebrei è in atto. La guerra comincia a frantumare le certezze di coloro che avevano creduto ciecamente nelle parole di Hitler. Il suo libro “Mein Kampf”, definito dal Times “la Bibbia laica”, fornisce la giustificazione al credo politico di ogni nazionalsocialista insegnandoli la via della salvezza nazionale. Gran parte della popolazione tedesca è conquistata dal carisma di questo uomo che definisce gli Ebrei “ funghi velenosi” che sottraggono spazio ed energia alla razza ariana. 
         

“La mia amica ebrea” , come traspare dal titolo, vuol essere una testimonianza di speranza. Quando intorno a noi tutto diventa “un gelido inverno” allora è arrivato il momento di aprire il nostro cuore a sentimenti puri come l’amicizia, l’amore, il desiderio di vivere e sperare in un domani migliore. Josepha è una ragazzina tedesca che vive in una famiglia segnata da un fratello, fervente sostenitore delle teorie di Hitler, e da suo padre, uomo onesto e pronto ad aiutare chi  ha bisogno. 
La mamma è una donna che combatte la sua personale guerra contro la paura, vive nel terrore che la Gestapo possa interessarsi alla sua famiglia e cerca di evitare ogni possibile comportamento che possa dare adito a ripercussioni negative. Ma se a chiedere aiuto è una famiglia ebrea, non ci si può sottrarre a un dovere morale nel rispetto di regole scritte nella coscienza di ogni uomo che pone il rispetto per tutti gli esseri umani, al di sopra di ogni cosa. Allora ecco che la soffitta di casa Faber  diventa, all’insaputa del figlio Ralf, il nascondiglio per tre ebrei perseguitati dal regime. 
Tra loro c’è Rina, 15 anni, sguardo spento dalla paura. Giorno dopo giorno cresce, tra le due ragazzine, il desiderio di conoscersi, di capire, di scoprire perché c’è tanto odio nei confronti degli Ebrei. Nasce una delicata amicizia,  nasce uno scambio di lettere in cui le fanciulle descrivono il loro mondo, i loro pensieri, i desideri e le speranze. Ogni giorno è una sfida, ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, ogni giorno segna la caduta nel  baratro di una guerra che semina morte.


 Ma tra le macerie dell’animo nasce una speranza, nasce un sorriso, che unisce due ragazzine e segna la sconfitta morale delle idee naziste. 
Molto brava è stata la scrittrice nel trattare questo tema, così cruento, con molta sensibilità e delicatezza. Lo svolgersi degli avvenimenti vede la violenza presente ma relegata come sfondo all’azione di uomini e donne travolti dagli eventi della guerra. Le privazioni, la precarietà dell’esistenza, il godere delle piccole cose, rendono Josepha e Rina artefici di una rinascita: dalle macerie della distruzione morale nasce un’amicizia vera, pura come mai sarebbe stato possibile immaginare. 
Rina vive attraverso gli occhi di Josepha, ritrova il mondo “oltre la soffitta” e anche le piccole cose diventano grandi e importanti. Il futuro, la grande incognita, si veste di una speranza accarezzata e sognata. In ogni pagina del libro traspare il desiderio dell’autrice, di trasmettere l’emozione della vita sofferta e vissuta nell’ingiustizia. Quando Amburgo verrà bombardata e la casa di Josepha ridotta a un cumulo di macerie, tra il dolore dei sopravvissuti brillerà un miracolo che a dispetto di tutti e di tutto porterà una luce di speranza, una tenue speranza, a riscaldare il cuore delle due ragazzine. Fin dalle  prime pagine, questo romanzo mi ha preso per mano e portata tra le vie di Amburgo, tra la disperazione delle persone, tra la paura per i bombardamenti. Ho partecipato ai sogni di Josepha e delle sue amiche, ho ascoltato i loro discorsi sul significato dell’amore, sui primi turbamenti, sulla voglia di poter sperare in un domani. Ma  c’è sempre la possibilità di un futuro? 
” Saremo ancora vive tra un anno, un mese, un giorno?” 
Quante volte le ragazze si son poste questa domanda. Ogni persona ha diritto di vivere una vita dignitosa, ogni ragazza deve poter fantasticare sulla realizzazione dei suoi desederi. Non sono, queste, frasi fatte, non ditemi che i temi trattati in questo romanzo appartengono a un passato ormai lontano, non stupitevi quando vi dicono che non sarà mai abbastanza “ricordare” per non dimenticare. La scrittrice è una giovane ragazza che ha saputo creare un romanzo dove Storia e Narrazione diventano un terreno fertile dove depositare il seme della speranza. Una speranza costruita sulla voglia di aiutare chi è in difficoltà. Naturalmente il concetto d’aiuto deve comprendere tutte quelle persone che sono vittima di abusi e maltrattamenti. Ancor oggi tanti sono gli atti di violenza. Non possiamo e non dobbiamo far finta di non vedere. Rebecca Domino ha condensato questi concetti in un romanzo la cui lettura è fluida e arricchita da vari colpi di scena. Il ritmo segna l’evolversi di una storia scritta molto bene, con la tensione che segna il trascorrere delle ore, dei giorni. Il finale è un pugno nello stomaco che toglie il fiato. Quando ho letto le ultime pagine mi sono ritrovata a dire :”NO!”. L’ho detto a voce alta, come se gridandolo avessi voluto liberarmi da un dolore che mi stringeva il cuore. Ecco, proprio per aver provato quel dolore voglio consigliarvi di leggere “La mia amica ebrea”. Quando un libro riesce a trasmettere delle forti emozioni vuol dire che la scrittrice è riuscita a trovare la via che  conduce al cuore. Rebecca Domino ha trovato quella via, l’ha percorsa con coraggio e fierezza scrivendo dell’amicizia e dell’amore che hanno acceso una luce in fondo al tunnel dell’odio.  
Non c’è Perfezione, non c’è Nullità. C’è solo l’uomo con la sua dignità!

sabato 8 marzo 2014

8 marzo: Giornata Internazionale della Donna

Sabato 8 marzo, è un trionfo di mimose e sorrisi. Tutti gentili e premurosi, auguri e abbracci vengono dispensati in gran quantità. Perché? Semplice, oggi è la festa delle donne. Festa? Ma cosa si festeggia? 

Le violenze fisiche e psicologiche che le donne subiscono da parte di uomini che si sentono “Importanti” solo sottomettendo gli altri? 
Gli spot pubblicitari in cui la donna è solo “corpo” e nulla più? 
I maltrattamenti quotidiani tra le mura domestiche? 
Le corse al pronto soccorso per “Involontarie cadute” causa perenne distrazione? 
Gli sfregi con acidi perché così impariamo a dire di no? 
Le coltellate perché non riusciamo a sottrarci ad “amori malati”? 
I femminicidi? 

No, donne, oggi non lasciamoci travolgere dal lato consumistico della “festa” e cominciamo ad avere rispetto per noi stesse. Se proprio dobbiamo festeggiare l’8 marzo allora facciamolo ricordando le conquiste sociali e politiche delle donne. Parliamo delle lotte per la discriminazione femminile, dello sfruttamento nel lavoro, delle discriminazioni sessuali. 

Milioni di donne, madri, sorelle, amiche, mogli, colleghe vivono drammi quotidiani. Possiamo dire a queste donne: ”Aspettate l’8 marzo per essere rispettate”? 
No, donne, non è con cioccolatini e rametti di mimose che possiamo cambiare una società che ancora non conosce il rispetto per tutti gli esseri viventi. In Italia le donne uccise da “chi le amava” sono state tante, troppe, anche solo una vita è un prezzo troppo alto da pagare come “tributo d’esistenza”. Sicuramente dobbiamo spezzare questa catena di atrocità, questa spirale di violenza non può continuare a fagocitare vite umane, vite di donne che chinano il capo e sopportano l’insopportabile solo perché si è “ donne”. Tante volte ho sentito parole di rassegnazione, tante volte ho visto corpi segnati dalla forza bruta di uomini violenti, tante volte ho visto la paura negli occhi di donne incapaci di reagire. La paura paralizza il corpo, annulla la volontà e le violenze trovano terreno fertile, non c’è opposizione, nessuna opposizione. Le donne maltrattate non hanno alcuna stima di se stesse, sono prigioniere di uomini dalle mille facce: gentili e simpatici in società, maneschi e prevaricatori in famiglia. 
Ora basta! 
Sicuramente è facile parlare, difficile agire ma qualcosa dobbiamo pur fare. Allora cominciamo col rialzare gli occhi e guardare in faccia a coloro che si nascondono dietro la violenza. Insegniamo ai nostri figli il rispetto per tutti gli esseri umani, trasformiamo le famiglie in luoghi sicuri per tutti, diamo il buon esempio comportandoci in modo civile. Denunciamo i maltrattamenti, che le donne siano solidali tra loro, nessuna paura, noi non meritiamo castighi e abusi psicologici. Siamo donne, siamo intelligenti e sappiamo amare di un amore puro e coinvolgente. Dobbiamo aver stima di noi, credere nelle nostre capacità lavorative. Siamo mamme, mogli, compagne a tempo pieno. Il rispetto è un diritto acquisito per nascita e nessun uomo può portarcelo via. Quindi oggi, 8 marzo, diciamo “no” al “Rispetto per un giorno” perché noi donne dobbiamo esser rispettate sempre, ogni giorno della nostra vita.

martedì 4 marzo 2014

RECENSIONE "La testa sul piatto" di Chiarella Ghini


La testa sul piatto di Chiarella Ghini 
è la storia di un’evoluzione alla ricerca della propria identità. Anna e Angelica sono sorelle gemelle che durante il loro percorso di vita si affrontano, si giudicano, compiono scelte diverse, si allontanano. Ma al richiamo del sangue non si può resistere, un vincolo di nascita è per sempre.


 
Autrice: Chiarella Ghini

Genere: Romanzo

Editore: Autopubblicato su Amazon

Collana: indies g&a
Pagine: 221 p.
Prezzo: € 4,99

Trama: Fin da piccola Angelica considera anomala la sua famiglia. Genitori anziani e poco affettuosi, un fratello maggiore di dieci anni, che sceglierà di trasferirsi dall'altra parte del mondo. E poi c’è lei, Anna, la sorella gemella, diversa nell'apparenza, nelle aspirazioni e nel destino. L'approccio a vite difformi conferma e approfondisce la distanza, che le gemelle riscontrano non solo fra di loro, ma anche fra le persone che con loro condividono il cammino.
Le donne imboccano strade differenti, si lasciano andare senza vera scelta a esistenze contrastanti, si giudicano, si affrontano, si allontanano. Eppure, loro malgrado, si ritrovano, attratte dal vincolo di nascita, il quale, anche se non compatta, lega per sempre.




STILE: 8
STORIA: 7
COPERTINA: 6





Anna e Angelica sono due sorelle gemelle uguali per nascita ma con destini diversi. La loro infanzia non è facile. Il padre muore nel giorno in cui le bambine compiono nove anni, la mamma è chiusa a riccio nel suo perbenismo, non esterna mai alcun tipo di sentimento. 


“Si esprimeva tramite gli occhi…due noci scure colme di diffidenza”


Poi c’è Guido, il figlio maschio, in cui sono riposte le speranze della famiglia. Speranze che andranno in frantumi quando egli deciderà di diventare sacerdote e partire come missionario per l’India. Senza punti di riferimento le due fanciulle manifestano subito un diverso modo di confrontarsi con la realtà. Ogni tentativo di richiamare l’attenzione materna fallisce miseramente ponendo le basi per una insicurezza cronica che sarà una costante nelle loro vite. Nel lungo e delicato percorso di crescita le nostre protagoniste evidenziano subito le loro diversità.
Anna rifugge dagli attriti della vita famigliare, non ama perdersi nel lato negativo delle cose. 

”Ama la bellezza della luce tra le foglie e non lo squallore delle stanze”

A 13 anni si infligge piccoli tagli alle vene dei polsi nel vano tentativo di ricevere un abbraccio, un conforto. Invece niente, solo parole di rimprovero. Anna è una sognatrice, medita su progetti improbabili sostenendo l’importanza, anzi la necessità, di dover usare la propria mente. 

“Se la realtà non è come vuoi, inventala con l’immaginazione”.
“Finché abbiamo la fantasia, nessuno può essere solo”.


Anche Angelica è afflitta da insicurezza cronica, il suo modo d’essere si basa sulla buona educazione, alla ricerca dell’approvazione negli occhi dei famigliari. Anche lei si rifugia nel dolore: le piccole cicatrici, all’interno dei suoi arti superiori e inferiori, sono la muta testimonianza di un’identità nascosta. Bisogna lottare contro i desideri, contro le illusioni: l’insoddisfazione è la sua compagna di vita.


“E’ un circolo vizioso quello delle mancanze, delle aspirazioni, delle illusioni e quindi della paura di non farcela che può portare al panico”.


Eccole, quindi, le sorelle emblema di una fragilità frutto di un’educazione a senso unico. Anna e Angelica insieme ma divise in un rincorrersi e ritrovarsi in un perdersi continuo tra pregiudizi e delusioni.
Il finale del libro, imprevedibile e coinvolgente, offre una possibilità di riscatto. 
Forse, in fondo, i sogni possono diventare realtà!
Questo libro si è rivelato, fin dalle prime pagine, una lettura molto impegnativa. Ogni pagina, scritta con un registro medio alto, richiede la totale concentrazione di chi legge. Le riflessioni continue abbracciano tutta l’esistenza delle protagoniste, sono punti di riflessione mai soluzioni. Molte cose vengono appena accennate, quasi sussurrate per dar modo al lettore di metabolizzare e rielaborare una storia in continua evoluzione. 
La scrittrice crea un “ritratto di famiglia” statico e dinamico allo stesso tempo. Una madre prigioniera delle convenzioni impartisce un’educazione rigida, fredda, non c’è posto per l’amore. Ogni emozione, anche la più violenta, viene mascherata da un’impassibilità che sgretola le montagne. Senza un punto di riferimento, senza scambi emozionali, senza interessi da condividere è difficile,se non impossibile, crescere con “la voglia di conquistare il mondo”. La società con le sue leggi non scritte delega la donna a un ruolo secondario mai da protagonista. Anna e Angelica, con le loro vite “sussurrate” riusciranno a districare l’ingarbugliata matassa del “vivere” ? A volte succede di trovare “se stessi” nelle circostante meno prevedibili della vita. Attraverso “l’amore per i più deboli”, attraverso “due occhi ingenui e disperati”, attraverso “un gesto affettuoso e mai banale”, attraverso “un cuore finalmente libero e capace d’amare”.
“La testa sul piatto” è un libro impegnativo, scritto bene, in alcuni punti l’andamento della storia è lento ma mai banale. Nel finale l’azione diventa più incisiva e imprevedibile. Alcuni passaggi si perdono tra i meandri di riflessioni che non forniscono mai delle risposte. Mi sarebbe piaciuto leggere qualcosa in più sulla famiglia d’origine, sui tentativi delle ragazze di richiamare l’attenzione della madre, anche il rapporto con Guido meritava un maggior approfondimento. Nel complesso il romanzo è una buona prova d’esordio per una scrittrice che ama analizzare e riflettere ogni aspetto della vita.